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Il 21 novembre, Presentazione della Beata Vergine Maria, si celebra la Giornata Mondiale “Pro Orantibus”, ascoltiamo le Benedettine dell’Abbazia dei SS. Pietro e Paolo in Viboldone, le Carmelitane Scalze del Monastero S. Maria del Monte Carmelo, e le Sorelle Clarisse del Monastero S.Chiara Milano

di Simonetta Caboni

“Monaco è una persona, uomo o donna, che – anelando a giorni felici, cerca Dio”, scandiscono le Benedettine di Viboldone riprendendo la Regola di san Benedetto (Prologo). “Questa ricerca polarizza ogni aspetto della sua esistenza: preghiera, lavoro, relazioni, rapporto con se stesso, il proprio corpo e l’anima, la memoria e l’aspettativa di futuro; con la storia, con le cose, con il creato. Se questa ricerca – che si configura attraverso strumenti e pratiche trasmesse di generazione in generazione, attraverso una Tradizione spirituale –  è condivisa con altri, si crea il monastero, casa di coloro che vivono insieme cercando Dio.”

Le Carmelitane Scalze del Monastero Santa Maria del Monte Carmelo a Concenedo di Barzio (Lecco) precisano: “La tradizione carmelitana nasce sul monte Carmelo al tempo delle crociate. Un piccolo gruppo di ex-crociati, sospinto dallo Spirito, si radunò sul Monte Carmelo, così ricco della testimonianza del Profeta Elia con la sua proclamazione ed adesione al Dio Uno e della presenza di una piccola cappella dedicata a Nostra Signora. La Regola, che la Chiesa dette loro per mano del Patriarca di Gerusalemme, Alberto di Vercelli, divenuto poi santo, contiene un punto molto particolare: “die ac nocte in Lege Domini meditantes”.

Successivamente, Teresa di Gesù, dalla natia Avila, riformando nel XVI sec. la vita carmelitana vi impresse una notevole novità: l’orazione. Per lei, le carmelitane non erano soltanto monache ma eremite. Sperimentavano la solitudine e il silenzio della cella per potersi mettere in ascolto della Parola e adorare la Presenza eucaristica: centro del monastero e del cuore di ciascuna sorella.

Spesso i monasteri mostrano come la via del silenzio e della preghiera introduce nella bellezza che resta nascosta ai frastuoni del mondo.

Le Sorelle Povere di Santa Chiara ci raccontano come questa via porti ad un contatto con la profondità di sé, dove Dio abita, chiama, ci incontra. “Il silenzio, quando risuona della sua Parola, è certo spada a doppio taglio che mette in evidenza la fragilità della vita. La preghiera che tiene aperto il contatto tra il Cielo e la terra diventa esperienza di amore e di misericordia che svelano il cuore umano come il luogo della bellezza di Dio, del suo offrirsi e farsi prossimo a noi. Silenzio e preghiera ci donano lo sguardo di Dio e la sua capacità di intessere relazioni di bene e di fraternità, di scorgere dentro il cuore di ciascuno, pur nella diversità, l’impronta bellissima di Dio, e di udire, nel frastuono del mondo, il grido inesprimibile dello Spirito che su tutti pronuncia il nome di “Abbà, Padre!”

“Silenzio e preghiera”, aggiungono le Benedettine di Viboldone, “fanno prima emergere il groviglio di pensieri che ci abitano; poi lo semplificano fino all’essenziale; poi conducono alla soglia dell’ascolto di Dio che parla: nelle Scritture, nella celebrazione, nell’altro da sé. Questo ascolto è grembo di incessante meraviglia, la riscoperta della realtà come immensamente amata e portatrice di quella Voce “altra” che è l’amore preveniente, gratuito di Dio per ciascuna creatura e per tutto il mondo.”


Nella storia dell’umanità, i monasteri sono stati luoghi dove sono rimaste accese fiammelle di luce e di speranza che, nel silenzio, hanno illuminato tanti cammini. Ascoltiamo come le monache vivono la speranza alla quale sono chiamate.

Il monastero non è luogo di “conservazione”, ci ricordano le Clarisse di Milano. “Esso è un cammino, verso la luce di Dio, ancorato all’umano, alla storia concreta del qui e ora. Per questo la vita monastica è un continuo processo di apertura e cambiamento, secondo i criteri di Dio, cioè secondo il Vangelo di Gesù Cristo, abbracciando tutto l’umano con i suoi accadimenti, le sue attese, i suoi smarrimenti, le sue angosce. La preghiera di lode, di intercessione, di grazie si unisce così alla vita della Chiesa, del territorio, dei molti che cercano un senso, una luce, una speranza. Far sì che la vita monastica si offra come opportunità di incontro con ogni “altro” per una crescita reciproca nella fede e nella carità, è il modo per tenere viva la speranza e per capire che lo Spirito apre nell’”altro” che ci accosta, e dunque in noi, cammini inattesi di fiducia, di consolazione, di rinascita di vera umanità.

Dal Monastero di Viboldone aggiungono: “La chiamata a splendere come fari per aprire cammini inattesi come ci trova piccole, fragili, precarie, segnate da tante ombre, ma attraverso sempre nuove partenze rigenerate, sospinte e animate da una grande passione: la Parola che ci è stata affidata, la preghiera che ci fa responsabili, l’Eucaristia che ci raduna. Lo stile sinodale che ci è stato riproposto – nel senso di ascolto di ogni voce, di cammino in uscita, di partecipazione, di una conversione al “noi” battesimale – ridisegna i nostri luoghi vitali: il cuore della sala capitolare in cui si elaborano discernimenti e decisioni, la cella, il claustrum, l’oratorio, e gli stessi parlatori. L’acqua battesimale germina nuova fraternità. Ciò che i monasteri sono stati nei secoli passati, soprattutto in Europa, oggi è sottoposto a radicale crisi – a motivo della svolta culturale, e dell’appiattimento della visione dell’umano che inficia la cultura mondiale -, e attraverso il crogiolo della prova si ripropone come umile profezia. A partire dalla celebrazione ove, in grazia di Colui che ci ha amate fino alla fine, il niente del frammento di pane e del sorso di vino attualizza la Presenza che salva il mondo.

 

Chiediamo alle monache cosa giunge del frastuono del mondo, delle tribolazioni della gente, delle sue gioie e fatiche, ansie e speranze.

“La nostra vita monastica, pur custodendo una certa forma di ‘ritiro’, non è affatto una vita separata e non è lontana dalle gioie, dalle fatiche, dalle aspirazioni e delle inquietudini che abitano il mondo e i cuori umani”, rispondono le Clarisse e sottolineano. “È vero che la nostra vita non condivide in modo concreto tante dimensioni del vivere comune, ma questo non impedisce la possibilità di essere “dentro” il travaglio degli uomini e delle donne del nostro tempo. Lo è sia attraverso vari strumenti di informazione che anche in monastero utilizziamo, sia, soprattutto, attraverso l’incontro diretto con tante persone che incrociamo, con le quali tessiamo relazioni di fraternità e amicizia o con cui, semplicemente, in diversi modi, ci ritroviamo a condividere pensieri, esperienze, sogni, collaborazioni. Sperimentiamo che rimanere dentro questo ‘travaglio’ e partecipare a quanto i nostri fratelli e sorelle quotidianamente vivono non è principalmente essere al corrente in tempo reale della ‘cronaca’ che accade. Indubbiamente, è necessario aprire le finestre oltre i confini del monastero, ma, molto di più, la partecipazione nasce dal riconoscere e constatare che si appartiene a un’unica umanità e che i vissuti di gioia, di ricerca, di dolore sono gli stessi, pur in differenti contingenze. Quello che “ci giunge” è alla fine lo stesso che “ci abita” in profondità: la ricerca di senso, le sfide di un presente spesso difficile da interpretare e decifrare, l’incertezza del futuro, il desiderio di relazioni affidabili, il bisogno di un contesto più “umano”, dove della fragilità ci si possa prendere reciprocamente cura, senza paura…

Le Carmelitane scalze sottolineano: “La scelta di radicarsi nella Parola e nella Presenza Eucaristica, non solo non preclude ma sostanzia la partecipazione alla storia del proprio tempo, alle vicende travagliate e difficili, ai successi che coronano l’azione benefica dei giusti. Custodire la propria cella e la cella delle sorelle con cui si condivide l’anelito di salvezza per tutti, apre e dilata all’accoglienza di ogni dolore, di ogni fatica. L’attenzione a quanto avviene e conta, ci raggiunge con la stampa, con l’aiuto di chi condivide con noi l’ascolto della Parola e la gioia dell’orazione e ci rende partecipi di quanto noi non viviamo direttamente ma assumiamo totalmente nelle nostre fibre.”

Sulla stessa lunghezza d’onda, ascoltiamo le Benedettine di Viboldone: “Il frastuono del mondo ci giunge tutto, e non perifericamente lambisce la nostra casa. Ci ferisce il cuore, attraversa la coscienza, fa sgorgare le lacrime, dilata il cuore in umile gioia di sperare, “contra spem”. Niente di ciò che è umano ci è estraneo o lontano: ci appartiene nel profondo. E si ripercuote negli spazi e nei ritmi della nostra vita – nelle domande che feriscono la nostra stessa carne. La distanza dal frastuono rende più perspicuo il suono e la separazione dalla mischia non fa che acuire la percezione del dolore, il presentimento della piccola speranza.”

Dove trovate Gioia e Pace e come vivete la vostra maternità spirituale? Cosa chiedono le giovani donne che intendono consacrare per sempre la loro esistenza a Dio in questa forma di vita?

Proseguono le Benedettine: “Gioia e pace il cuore di una monaca li scopre, dono quotidianamente nuovo e totalmente gratuito, nel cuore di Gesù. E non altrove: anzi la paura, l’ansietà che talora ci assale è segno che ci siamo smarrite, allontanate dal quel Cuore.

La maternità scaturisce dall’esperienza della forza generativa del silenzio che ascolta. Le giovani donne arrivano con le aspettative più varie, a volte un poco sfocate, un poco confuse. Ma pian piano, giorno dopo giorno, scoprono la maternità dell’intercedere, la trasmissione di vita che avviene nell’affidamento a Mani d’amore, e come la tenera cura del piccolo e del povero nella sorella più prossima e invisa, apra il cielo mentre invita mondi nuovi, fraterni, a venire avanti.”


Una parola dal silenzio…

Dal Monastero di Milano risuona, forte, l’invito al silenzio. “Il silenzio che abita nel profondo del nostro essere è una dimensione da riscoprire, anche se forse crea timore, ansia, incertezza viverlo, starci dentro perché rumori, pensieri, attività ci distolgono e riempiono le nostre giornate. È un rischio che tutti corriamo ed è perciò una dimensione da custodire continuamente perché è uno dei luoghi privilegiati in cui possiamo aprirci all’ascolto del Signore, di noi stessi e della nostra vita. Si trovino spazi, anche se brevi, per leggere qualche frase del Vangelo, o per fermarsi a riflettere su qualcosa che abbiamo vissuto, che ci ha colpito in modo particolare, che ci portiamo dentro e a cui non sappiamo dare un nome. Questo spazio di silenzio ogni giorno potrebbe aprire qualche nuova luce nel nostro vissuto e dare maggiore profondità alla nostra esistenza.”

Riferendosi al silenzio e all’ascolto, le Benedettine lasciano la parola all’antico monaco. “È denso nella sua sintesi potente, solo a un orecchio sensibile (“expertum potest dicere”, scrive Bernardo) può parlare: “se hai cuore, puoi salvarti” (abba Pambone).”

Speranza” è la parola che ci viene dalle Carmelitane Scalze: “Speranza, in ebraico, si dice tiqvà e indica il filo, quello con cui viene misurato il Tempio. Questo filo viene gettato nella storia dell’umanità a ciascuna persona dal Padre Misericordioso che ne trattiene un capo e desidera che l’altro venga afferrato. Il filo, la speranza, rimane sempre tesa e indica il cammino, donando sicurezza nel percorso.