Gruppi di preghiera online, meditazioni serali e testimonianze su Facebook, aiuti concreti ai fedeli in difficoltà. Massimo Aprile, con la moglie Anna Maffei co-pastore della Chiesa cristiana evangelica battista di Milano, illustra le iniziative intraprese durante la pandemia
Come la comunità battista di Milano sta vivendo la pandemia e in che modo è andata incontro alle esigenze dei suoi membri? Ne parliamo con il pastore Massimo Aprile, con la moglie Anna Maffei co-pastore della Chiesa cristiana evangelica battista di Milano, in via Pinamonte da Vimercate.
Quali caratteristiche ha la vostra comunità?
Sostanzialmente è una comunità di immigrati: raccoglie venti nazionalità diverse e conta 200 membri di Chiesa (bambini, ragazzi e adolescenti fanno parte della comunità, ma non sono membri di Chiesa). Poi ci sono i simpatizzanti, circa 350. La pandemia è certamente stata uno shock, che però abbiamo deciso di condividere. In questo momento è molto importante mantenere il tessuto delle relazioni intracomunitarie. Alcune persone, soprattutto quelle più anziane, vivono con un aggravamento di solitudine la pericolosità del virus e la loro maggiore esposizione.
Come le avete sostenute?
Con mezzi che avevamo già a disposizione, ma con i quali avevamo poca dimestichezza. Parlo soprattutto dei gruppi di preghiera su Whatsapp, che esistevano già prima della pandemia. Abbiamo mantenuto i contatti, soprattutto dando informazioni personali sui membri di Chiesa. Nel primo lockdown abbiamo diffuso videomessaggi, come spazio comune in collaborazione con i diversi pastori e i consigli delle altre Chiese evangeliche: metodisti, valdesi, avventisti, anglicani, luterani e riformati. Abbiamo attivato anche una raccolta delle offerte online, con risultati molto soddisfacenti. Non si tratta solo dell’aspetto economico (sul quale comunque abbiamo “tenuto”), ma anche e soprattutto di quello spirituale. È stato un meccanismo di spiritualità concreta. Fratelli e sorelle non colpiti dal Covid hanno compensato la difficoltà degli altri. E la comunità non ha patito.
Lei e sua moglie Anna, come pastori della Chiesa battista di Milano, avete avviato un accompagnamento quotidiano online…
Sì, abbiamo capito che era necessaria una compagnia costante. Abbiamo organizzato una diretta Facebook quotidiana, basandoci sul lezionario per la meditazione e la preghiera «Un giorno, una parola». Sono stati incontri serali, nella fascia oraria tra il dopocena e l’inizio delle trasmissioni televisive. Un quarto d’ora di meditazione, in cui comunicavamo una parola di incoraggiamento.
Da chi è stata seguita questa iniziativa?
Da molte più persone di quelle a cui noi avevamo pensato. Siamo stati pastori in molte città d’Italia: in Molise per due anni, in Puglia per otto anni, a Napoli per dodici anni. Mia moglie Anna è diventata poi presidente dell’Unione battista a Roma per sei anni. Nel frattempo io sono stato a Civitavecchia. Poi lei è andata a Firenze e io a Milano, dove in seguito mi ha raggiunto. Abbiamo molte relazioni ancora vive in diversi luoghi e il passaparola ha agevolato la diffusione dei contenuti.
Una vera e propria comunità, anche se virtuale.
Non direi virtuale. Era reale, fatta di persone che conosciamo. Solo attraverso un mezzo tecnologico. Abbiamo tantissimi amici, anche cattolici, e diversi sacerdoti che hanno frequentato la nostra diretta. Uno di questi è don Paolo Alliata, di Santa Maria Incoronata nella Comunità pastorale Paolo VI, dove è presente la nostra chiesa. Abbiamo avuto già in passato diverse occasioni di leggere e commentare insieme testi biblici. Sono un grande estimatore di don Paolo come teologo e come predicatore. Gli riconosco una particolare sensibilità e competenza letteraria. Don Paolo cerca e trova il respiro di Dio nascosto nelle storie di film e libri. Mi nutro delle registrazioni dei suoi incontri. In particolare ho apprezzato uno dei suoi ultimi interventi su Gianni Rodari, sul quale anch’io ho predicato in seguito. Interessante: uno scrittore ateo che ispira un sacerdote cattolico che a sua volta ispira un pastore battista. Questo è il mondo che voglio.
Tornando alle vostre dirette, si tratta di un’iniziativa decisamente ecumenica.
Esattamente. È il taglio generale con cui viviamo il nostro ministero. Abbiamo deciso di dare spazio alla Parola, ma anche di incontrare persone e realtà belle, che potevano condividere la loro testimonianza.
Per esempio?
Abbiamo invitato un evangelico che nel suo condominio aveva animato l’incontro dei balconi in due orari del giorno (per bambini e per adulti): è riuscito ad aggregare persone che a malapena il mattino si salutavano. Oppure un ex operaio Fiat in cassa integrazione, che si è inventato la professione di clown ed è l’immagine-simbolo di un famoso circo tedesco. Queste iniziative così variegate hanno messo in circolo esperienze disseminate sul territorio.
La pandemia ha dato l’opportunità di pensarsi in modo universale. E forse ne avevamo bisogno più che mai.
Tendiamo tutti a vivere molto la dimensione parrocchiale, ed è giusto. Ma quando gli orizzonti diventano troppo corti, è ora di farsi qualche domanda.
Questa pandemia ci sta rendendo migliori?
Ho partecipato a un gruppo ecumenico che ha prodotto un testo molto interessante, dal titolo «Radicati nel nuovo». In questo periodo osserviamo due tendenze: c’è chi vuole tornare a vivere, chiudendo la parentesi del Covid, e c’è chi vuole tornare a nascere, non avvertendo alcun desiderio di tornare alla vita di prima. Io non so cosa accadrà. Ma stanno già emergendo segnali di quanto siamo più cinici ed egoisti. Abbiamo sperimentato spazi nuovi per vivere la comunità, a cui non rinunceremo: hanno un impatto ambientale minore e richiedono meno spese economiche. Se pensiamo alla formazione alla fede, abbiamo decuplicato le nostre possibilità. Per altre cose è necessaria la presenza. Sarebbe importante ora, come comunità, ristabilire l’ordine di priorità della nostra vita: vogliamo veramente tornare a vivere come prima? O forse è meglio resistere alla forza fagocitante che ci rivuole allineati nei comportamenti precedenti? Non siamo forse di fronte a un germe di rinnovamento dell’evangelo?
(Articolo pubblicato su “Il Segno”, gennaio 2021)