La modalità a distanza adottata per preservare i fedeli dal rischio del contagio ha favorito un lavoro “in rete” con le altre Chiese protestanti lombarde, nonché le pratiche ecumeniche, come rileva la pastora milanese Dorothee Mack
«Dopo molte discussioni, già all’inizio della seconda ondata della pandemia abbiamo deciso di chiudere nuovamente la chiesa perché da noi arrivano persone che provengono non solo da tutti i quartieri di Milano, ma anche da fuori città, e quindi ci è sembrato giusto non mettere a rischio i fedeli, magari anche per gli spostamenti. Inoltre il nostro locale di culto è sito in un sotterraneo, in via Porro Lambertenghi nel quartiere Isola, ed è veramente difficile aerarlo. Per questo abbiamo aperto la chiesa solo una volta, per un funerale». Dorothee Mack, pastora della Chiesa evangelica metodista di Milano, che lascerà Milano nel giugno prossimo dopo 16 anni, racconta così il secondo lockdown vissuto dalla sua comunità.
Come avete tenuto uniti e in contatto i fedeli? Ci sono state difficoltà particolari?
Da quando a Milano e in Lombardia siamo usciti dalla “zona rossa” abbiamo scelto di continuare su Zoom. Adesso celebriamo sempre online, ma offriamo anche brevi momenti di culto, per una ventina di persone, in un salone che si trova al primo piano dell’edificio. Tuttavia devo dire che un dato positivo c’è: infatti, un aspetto interessante dei culti online è che non li celebriamo da soli, ma ci colleghiamo, come abbiamo fatto anche durante l’estate, con altre Chiese protestanti di Lombardia: siamo un bel gruppo e lavoriamo anche attraverso un team pastorale alla preparazione di questi culti.
Quanti sono i fedeli che appartengono alla Chiesa di cui lei è Ministro?
Contiamo 250 membri iscritti, ma abbiamo anche un’ampia cerchia di simpatizzanti. La nostra particolarità è che siamo una Chiesa interculturale, con la presenza di persone provenienti da 15 diversi Paesi. Sulla carta, i 2/3 sono italiani, mentre il restante della comunità è costituito dalla componente anglofona, ma osservando la concreta frequenza e pratica ai culti registriamo il contrario.
Questo periodo, indubbiamente così difficile per tutti, tuttavia ha dimostrato che siamo tutti sotto lo stesso cielo. Può essere un’occasione per incrementare rapporti e pratiche ecumeniche, alle quali magari prima non si era pensato?
Devo dire che, nel tempo immediatamente successivo al primo lockdown, abbiamo vissuto una bella esperienza ecumenica, poiché, essendo appunto il locale di culto nel sotterraneo, ci siamo rivolti alla vicina parrocchia del Sacro Volto, chiedendo ospitalità. Questo non ci ha portato a celebrazioni condivise, ma è stato molto significativo che, arrivando noi verso la fine della Messa, ci si potesse fermare, chiacchierare, conoscere, confrontarsi e, poi, avere la nostra celebrazione. Io ho anche partecipato una volta alla Messa domenicale. Inoltre, sicuramente si sono moltiplicate le iniziative online, che sono più facili da organizzare: lì ho notato che c’è un vero desiderio di confronto ecumenico. Io stessa ho avviato una serie di interviste, che ho chiamato «Questa è la mia storia, questa è la mia fede», con le parole d’inizio di un Inno. Sono serate appunto dedicate a storie di uomini e donne che raccontano il loro percorso professionale e di fede. Per esempio, tra gli intervistati di queste ultime settimane c’è stato don Lorenzo Maggioni, del Servizio per l’Ecumenismo e il dialogo della Diocesi, mentre il 6 gennaio intervistiamo don Giuliano Savina, direttore dell’Ufficio nazionale per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale italiana.
Progetti per il futuro, anche nell’ottica della Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani?
Avremo don Savina come predicatore, durante il culto della domenica. Se riusciremo a organizzare l’evento in presenza sarà a Milano, altrimenti ci collegheremo a distanza secondo il tema di quest’anno.
Ha notato che vi sia stata più stanchezza tra i fedeli, anche a livello psicologico, morale e di fede, nel secondo lockdown rispetto al primo?
Sicuramente si è arrivati a questo secondo momento un poco più scoraggiati. Rispetto all’intensità della richiesta di spiritualità nei primi mesi della pandemia, adesso riscontriamo una certa diminuzione, anche perché molte persone continuano a lavorare e a uscire. Nel primo lockdown, invece, avendo forse più tempo a disposizione, si è sentita forte la necessità di approfondire anche l’aspetto spirituale della propria vita e questo è, comunque, un buon segno.
(Articolo pubblicato su “Il Segno”, gennaio 2021)