Quest’anno il tema proposto per il tradizionale Ottavario ecumenico (18-25 gennaio) è stato approfondito dalle religiose della Comunità monastica svizzera di Grandchamp. Si rinnova l’auspicio a mettere in primo piano ciò che accomuna, più che ciò che separa
Tra limitazioni circa le iniziative in presenza causa Covid e sobrio utilizzo di dirette streaming, dal 18 al 25 gennaio si rinnova l’appuntamento della «Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani»: otto giornate (in realtà è appunto un ottavario) nel segno dell’ecumenismo, promosse nelle diocesi di tutti i continenti (nell’emisfero Sud, essendo gennaio periodo di vacanza, è celebrata anche in altre date, per esempio nel tempo di Pentecoste).
Nella stragrande maggioranza dei Paesi, dunque, i cristiani dedicano un tempo comune per richiedere al Padre il dono dell’unità, secondo la volontà di Gesù. Un tempo che solitamente invita a riflettere su testi percorsi da un leit motiv. Quest’anno il tema scelto dalla Commissione internazionale del Pontificio consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani e dalla Commissione Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese è «Rimanete nel mio amore: produrrete molto frutto», tratto dal Vangelo di Giovanni (15, 1-17). Sì perché – come hanno scritto insieme il vescovo Ambrogio Spreafico, il pastore Luca Maria Negro e il compianto metropolita ortodosso Gennadios – «il risultato della lotta per vincere il male e la divisione, rimanendo saldi in Gesù, è portare frutti abbondanti» e, ancora, «la divisione, frutto amaro del male, vanifica gli sforzi per ottenere risultati».
Il titolo suggerito quest’anno, poi, fa da collante al materiale raccolto e preparato dalla Comunità monastica di Grandchamp, realtà ecumenica elvetica che esprime la vocazione alla preghiera, alla riconciliazione e all’unità della Chiesa e del genere umano, da segnalare qui almeno insieme all’Istituto di Studi Ecumenici («molto più di una scuola», come titolava l’Osservatore Romano nel luglio scorso), che pure ha realizzato per l’appuntamento un sussidio con un contributo di riflessione e proposta biblica dei propri docenti.
A ogni buon conto, se è vero che già all’alba del secolo scorso, dal 18 al 25 gennaio 1908, l’episcopaliano statunitense Paul Wattson era giunto a celebrare a Graymoor (New York) un «Ottavario di preghiera per l’unità» (Chair of Unity Octave), auspicando che ciò divenisse una consuetudine, e se è vero che dalla fine del Settecento a tutta la prima metà del Novecento non sono mancate iniziative analoghe portate avanti dal movimento ecumenico, è solo però dopo l’istituzione del Segretariato per l’unità dei cristiani da parte di Giovanni XXIII, e dopo il Concilio Vaticano II, lungo il pontificato di Paolo VI, che la Settimana si struttura con percorsi di lunga preparazione che sfociano indicando un tema.
Questa volta ne è stata appunto protagonista la Comunità di Grandchamp, che ha sede sulle sponde del lago di Neuchàtel, ma è diffusa fra Svizzera e Olanda, dove vivono cinquanta sorelle di diverse Chiese cristiane, fedeli alla vocazione originaria, segnata dalla preghiera per la riconciliazione tra cristiani, popoli e culture. Una storia iniziata nella prima metà del Novecento. Storia di donne che non hanno mai abbandonato l’eredità delle pioniere, mai rassegnatesi allo scandalo della divisione fra i cristiani, dedicatesi alla causa ecumenica spinte dall’abbé Paul Couturier e dalla sua idea di «un monastero invisibile per l’unità». Storia di donne che, già alle origini della loro avventura, avevano stabilito legami con la Comunità di Taizé, della quale nel 1952 adottarono (pur adattandola) la “Regola” scritta da frère Roger Schutz, e quindi l’“Ufficio”, basi della loro vita liturgica. Non c’è qui lo spazio per ripercorrere le tappe e le figure di questa esperienza (narrata in Verso una gratuità feconda, libro scritto da Minke De Vries e pubblicato dalle Paoline nel 2012). Piuttosto non andrà dimenticato che da essa è nata tutta una famiglia spirituale, dove alle sorelle si sono affiancati i membri del Tiers-Ordre de l’Unité (uomini e donne che vivono la loro vocazione di unità in famiglia, in parrocchia, sul lavoro) e le Servantes de l’Unité (donne che vivono da consacrate nel mondo secondo lo spirito monastico).
La Settimana dell’unità – sostenuta dal dialogo della carità, della verità, dell’adesione alle parole di Gesù «che tutti siano una cosa sola» -, pur dentro un contesto che gode ormai di coerente continuità negli ultimi Pontificati, non può ancora neppure immaginare quando raggiungerà il suo obiettivo: il ripristino dell’unità della Chiesa. Auspicata da tutti, ma non si sa in quale forma. E allora a chi scrive non vengono in mente altro che parole dette tempo fa dal priore di Taizé, frère Alois: «Sappiamo che la nostra situazione è provvisoria nell’attesa dell’unità pienamente realizzata. Ciò che possiamo dare è forse questa cosa semplice, ma che diventa importante ora, cioè anticipare l’unità, quest’unità alla quale il Cristo chiama nel Vangelo. Insomma il tema non dovrebbe essere più l’ecumenismo, ma dovrebbe essere il Vangelo, la presenza di Cristo. Se noi ci attorcigliamo solo attorno al tema dell’ecumenismo, noi sottolineiamo innanzitutto la separazione. Invece dobbiamo riunirci sottolineando prima di tutto l’unità, che già esiste, incompleta, imperfetta, ma che è qualcosa di reale. Che è già il Cristo stesso che ci unisce: frère Roger lo chiamava il “Cristo di comunione”».
(Articolo pubblicato su “Il Segno”, gennaio 2021, pagg. 18-19)