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La testimonianza di Gemma Capra Calabresi e della Beata Enrichetta Alfieri all'incontro Ordo Virginum delle Diocesi lombarde di sabato 6 ottobre 2024

“Il nostro cuore è colmo di gratitudine” con queste parole don Dario ha introdotto la celebrazione conclusiva dell’Incontro regionale dell’Ordo Virginum, ospitato quest’anno dalla nostra Diocesi.

Sono davvero tanti i motivi di gratitudine!

Anzitutto per le sorelle che hanno organizzato e preparato l’incontro in ogni particolare, affinché tutto andasse per il meglio. Poi per la Casa che ci ha accolto, per Gemma Capra che si è raccontata con coraggio e semplicità. Riconoscenza da esprimere reciprocamente a tutte noi consacrate, a don Dario e a don Ivan, Delegato di Como: con il rispetto delle indicazioni date, siamo riusciti a stare nei tempi e permettere a chi veniva da più lontano di non fare troppo tardi.

Dopo la preghiera di invocazione allo Spirito, la superiora delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, che ci ospitavano, ha presentato la figura della Beata Enrichetta Alfieri. Suor Enrichetta ha vissuto proprio in quella Casa, poco distante dal carcere di San Vittore, dove per molti anni – compresi quelli bui della seconda guerra mondiale – ha svolto il suo servizio con i detenuti. Condivise con loro anche la prigionia, quando la rinchiusero in cella dopo aver scoperto che, a rischio della vita, si faceva tramite tra i detenuti e le loro famiglie, consegnando lettere e favorendo incontri.

Il momento della pausa caffè, arricchita da biscotti e dolcetti preparati da alcune sorelle, è servito per lo scambio di notizie tra noi: un prezioso tempo di condivisione!

L’incontro con Gemma Capra, molto intenso e coinvolgente, è stato il perno della giornata. Hanno commosso la sua concretezza e il suo modo di raccontarsi con verità e semplicità. Partendo dal titolo Generare speranza, “non ho ricette – ha detto – ma vi racconto il mio cammino per arrivare al perdono”. Un cammino non facile, a volte bloccato da tentazioni di vendetta quando, ad esempio, tra sonno e veglia immaginava di infiltrarsi nel gruppo dei terroristi per conoscere il nome di chi aveva ucciso il suo Gigi e, sentito il nome, di estrarre una pistola per ucciderlo.

Un cammino però cosparso di segni, li ha chiamati così, che la hanno guidata.

L’origine di questi segni non poteva che essere Colui che alla notizia della morte di Gigi, nella mezz’ora o forse più passata sul divano tenuta per mano dal suo parroco, come isolata da quanto la circondava e dalle voci che le risuonavano intorno, l’ha riempita di una pace ineffabile. Nei momenti difficili – ci testimoniava – torna alla forte sensazione di pace che ha ricevuto quella mattina su quel divano e si dice: “Gemma, tu lo sai che Dio è con te”. E riesce a ripartire.

Un altro segno l’ha ricevuto in tribunale, durante il processo per la morte del marito. In una pausa dei lavori vede uno degli imputati andare al fondo dell’aula a salutare il figlio: è tenerissimo con lui, lo abbraccia, lo accarezza, non sente cosa si dicono però intuisce qualcosa come “grazie di essere venuto, ma non voglio che tu stia qui, perché me la cavo, vai a casa”. Ha pensato che l’imputato era anche un padre amorevole e guardava questa scena con una tenerezza infinita, perché quell’uomo esprimeva una tenerezza infinita.

Anni dopo, ripensando alla scena, considerava che anche gli uccisori di Gigi, che lei aveva chiamato sempre e solo “assassini”, non erano unicamente tali, ma probabilmente anche dei buoni padri, dei buoni amici, capaci di aiutare altri, in cammino come lei stava cercando di camminare. “Che diritto ho di relegarli per tutta la vita all’atto peggiore che hanno commesso?” si è chiesta; e così ha ridato loro umanità, la dignità di persone e non li ha più definiti “assassini”, ma “i responsabili della morte di Gigi”. Li ha visti diversi e questa si è rivelata una svolta importante.

Ulteriore segno fondamentale è stato un incontro al carcere di Padova, dove era stata invitata perché tre detenuti avrebbero ricevuto i sacramenti. Si trattava di tre ergastolani: tutti e tre avevano ucciso, uno di loro per ben due volte. Dopo la messa e i discorsi, prima di congedarsi chiese il permesso di parlare con questi detenuti: voleva capire come era possibile che una persona che aveva ucciso fosse riuscita ad abbracciare la fede fino al punto da desiderare i sacramenti. Le permisero cinque minuti con ciascuno, separatamente: ognuno di loro le raccontò, pur con parole diverse e riguardo a periodi diversi della vita, che in un momento di totale disperazione per ciò che aveva compiuto, si era sentito raggiunto da un‘incredibile e assurda pace interiore e da una grande forza, esattamente le stesse che lei aveva provato sul divano la mattina dell’omicidio di suo marito. Ha dunque capito che Dio non bada a chi crede, a chi ha fede: Dio bada a chi soffre. È lui che ci viene a cercare, e questa certezza ci dona la forza di vivere sempre; naturalmente sta poi a noi aprire la porta, ognuno con i propri tempi, facendo le proprie scelte. I detenuti le confidarono inoltre che pregavano tutti i giorni per la famiglia alla quale avevano tolto il loro caro, e che si preparavano con il cappellano del carcere a chiedere loro perdono. Gemma si è resa conto dell’esistenza di una specie di ponte: da una parte i detenuti che camminano per domandare perdono e dall’altra chi, come lei, cammina per riuscire a darlo; non ci si può che incontrare a metà strada, guardarsi negli occhi, amarsi. Quando ci si guarda negli occhi le barriere crollano: questo ha scoperto.

Che cosa ha imparato dai segni? Ha imparato che non dobbiamo inchiodare una persona all’offesa che ci ha fatto, perché lei o lui è anche tanto altro; dobbiamo invece guardare le persone in toto: la loro vita, la loro storia, la loro sofferenza; dobbiamo permettere alla persona che ci ha ferito di cambiare, così come noi stessi – attraverso i segni, le scoperte, gli incontri – cambiamo. Dobbiamo ridare loro umanità; solo così riusciremo a essere meno giudicanti e a cominciare un cammino di perdono; altrimenti non si va da nessuna parte. Non è detto che, se uno ha fatto del male, farà sempre e solo quello: potrà farà anche cose buone. L’abbraccio di quell’imputato al figlio, ad esempio, era cosa buona e le ha aperto gli occhi: le barriere sono cadute e così lei ha potuto intraprendere un cammino di perdono.

Altri due segni significativi.

Il suo appartamento è situato sul lato interno del condominio, perciò la mattina del 17 maggio 1972 Gemma non sentì gli spari sulla strada. Anni dopo, durante una testimonianza in Svizzera, le si avvicinò una signora per salutarla e le raccontò che, all’epoca dell’omicidio, abitava nel suo stesso stabile. Quella mattina era in casa con la mamma e stava uscendo per andare all’università, quando udirono i colpi di pistola: accorse entrambe alla finestra, videro Luigi Calabresi steso per terra. La mamma subito scappò; lei rimase come pietrificata, finché sua madre la strattonò per un braccio e le disse: “Vieni qui, dobbiamo pregare per loro”; e lì, nel soggiorno dove si trovavano, si misero a pregare. Gemma ancora non sapeva che il marito era morto e già c’era chi pregava per lei e per i suoi figli. Quella sera in Svizzera abbracciò la signora ed esclamò: “Ecco perché Dio è arrivato sul quel divano: me lo avevate mandato voi!”. La forza della preghiera!

Un altro incontro, un altro segno. Gemma sta facendo una passeggiata sul lungolago di Como e vede un signore che viene verso di lei a braccia aperte e le confida: “Che bello incontrare una cara amica, anzi quasi una parente, che non si è mai vista prima! Quel 17 maggio io e mia moglie ci sposavamo: siamo rimasti così sconvolti dal fatto che lei finiva il suo matrimonio, mentre noi avevamo la fortuna di incominciarlo, che abbiamo deciso di portarla con noi nel nostro cammino, dicendo una preghiera per lei tutte le mattine appena svegli”. Gemma racconta: “Ci siamo abbracciati e io mi sono detta: Ecco perché ce l’ho fatta; anzi, ce l’abbiamo fatta. Io ce l’ho fatta grazie a tutte queste persone: da sola non ci sarei mai riuscita. Io ce l’ho fatta perché abbiamo pregato insieme. Io non lo sapevo ma c’era gente che pregava, che mi amava”. La forza dell’intercessione!

Per tanto tempo ha tenuto per sé questo cammino, ma le sembrava un po’ arido non condividerlo; così a un certo punto ha deciso di testimoniarlo e, soprattutto, di affidarlo.

“Oggi” – ci ha detto – “questo cammino di fede e di perdono lo affido anche a voi; perché più siamo e più io mi sento forte; perché non voglio tornare indietro. Quella di perdonare è stata la scelta più grande e più importante della mia vita. Ho capito che insieme si può. Il perdono non è una debolezza, ma una forza; il perdono ti fa volare alto; soprattutto, il perdono ti rende libero, ti fa vivere in pace con Dio e con l’umanità, ti fa guardare con altri occhi la gente. Adesso ogni giorno prego per i responsabili della morte di Gigi, perché abbiano pace nel cuore”.

Salutata Gemma e dopo aver pranzato, ci siamo spostate presso la basilica di Sant’Ambrogio, dove l’architetto Carlo Capponi ha presentato la chiesa da un punto di vista artistico, situando la figura del Santo e l’edificio a lui dedicato nel loro contesto storico.

Abbiamo infine celebrato insieme l’Eucaristia, per ringraziare il Signore di averci donato una giornata di così intensa comunione e preghiera.