La musica sacra non esiste: esiste l’uomo con i propri desideri, le proprie ansie e paure, esiste l’uomo «fatto poco meno degli angeli, coronato di gloria e di onore» (Sal 8,6) che, in virtù di questa singolarità, riesce perfino a creare opere di genio incommensurabile, ed esiste pure l’uomo «fragile carne, un soffio che va e non ritorna» (Is 40, 7-8) che si specchia quotidianamente nel proprio teschio, cioè nella sua povertà assoluta” spiega don Luigi Garbini, esperto ed appassionato di musica, residente nella chiesa di San Marco a Milano.
Da questa ambivalenza nascono opere che ancora oggi possiamo ascoltare e sentire come espressione della nostra umanità, come il Requiem di Giuseppe Verdi diretto da lui medesimo nella chiesa di S. Marco, alle ore 11 del 22 maggio 1874 e riallestito dal Teatro alla Scala in occasione del 150° anniversario della prima esecuzione.
L’appuntamento infatti è per giovedì 23 maggio alle ore 20 presso la chiesa di San Marco. Coro e orchestra saranno diretti da Riccardo Chailly.
Quelle tinte, ora sgargianti, ora acremente timbrate da una visione culturale della morte, trovano conferma nella neonata concezione del luogo deputato alla memoria degli estinti, che proprio in quell’epoca nella città di Milano accoglieva suicidi, scomunicati, anarchici e non battezzati, tradizionalmente discriminati dalla prassi della Chiesa cattolica” prosegue don Luigi Garbini. Non è un caso che l’architetto che sta progettando il neonato Cimitero Monumentale sia lo stesso che procede alla reinterpretazione della facciata della chiesa di S. Marco.
Il Requiem approderà a San Marco con l’apporto di Arrigo Boito, uno dei fondatori della Società del Quartetto ed elemento di spicco dell’Assemblea municipale deliberativa nonché propugnatore di una mozione a favore dell’esborso per l’esecuzione, e grazie al concorso del parroco di allora, don Michele Mongeri. Il Requiem fu primariamente una Messa da morto, e non un concerto” conclude Garbini. “Fu il ricordo di un estinto ma con le parole di una forma liturgica; fu una musica eterna ma piena di storia, di caducità. Farne dunque un concerto, come oggi si fa, significa almeno perderne la parte meno connotata e quindi meno caduca.