Una riflessione a partire dalla lettura della proposta pastorale 2024-2025 del nostro arcivescovo
Presidente della Consulta diocesana «Comunità cristiana e disabilità»
Nicholas James Vujicic è un predicatore australiano, direttore di Life Without Limbs, un’organizzazione per persone con disabilità. Nick è nato senza braccia e senza gambe. In occasione di un’intervista disse: «Mi sento veramente fortunato. Sono incredibilmente felice». Quando era bambino pregava perché le sue braccia e le sue gambe crescessero. Si sarebbe accontentato di avere anche solo un braccio o una gamba. Ma Dio non ha mai risposto a questa sua preghiera nel modo in cui Nick sperava: «Dio invece mi ha usato per incontrare tantissime persone nelle scuole, nelle chiese, nelle prigioni, in orfanotrofi, in ospedali, persino negli stadi ed in grandi raduni. Ancora più bello è stato abbracciare personalmente migliaia di persone e poter dire a ciascuno di loro quanto fossero preziose. Dio ha usato il mio corpo così terribilmente unico dandomi la capacità di incoraggiare e risollevare lo spirito delle persone che incontravo».
La storia di Nick può aiutare a capire ancora oggi la profondità e la bellezza della risposta che Dio diede a San Paolo quando pregava affinché potesse essere tolta dalla sua carne una spina che procurava dolore e insofferenza: «Ti basta la mia Grazia: la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor, 12, 9). Si tratta della citazione che ha ispirato la proposta pastorale per il nuovo anno 2024 – ’25 dal titolo: Basta. L’amore che salva e il male insopportabile, scritta dal nostro arcivescovo, il quale nelle pagine iniziali afferma che: «…lo smantellamento della nostra superbia apre uno spazio in cui si fa percepibile in modo limpido che è tutto frutto del dono del Signore, potenza sua che si manifesta nella nostra debolezza. E questo basta».
Si sa che anche un passaggio biblico, a forza di essere richiamato, non è esente dal rischio di diventare uno slogan e cadere nella retorica. È il pericolo che durante il prossimo anno potrebbe correre anche questa citazione: «Ti basta la mia grazia». Per evitare che questo avvenga, occorre prendere realmente sul serio le parole che seguono e lasciarsene provocare: «la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Per capire realmente che cosa significhi in concreto che la Grazia basta, è necessario non solo avere consapevolezza della propria debolezza, ma anche non aver paura di ammetterla ed essere disponibili a manifestarla e a renderla luogo privilegiato dell’azione di Dio. Questo passaggio, che per Paolo è stato cruciale nella sua esperienza di apostolo delle genti, non è proprio così facile e scontato: chi è disposto a riconoscere la propria debolezza? Chi ha il coraggio di manifestarla davanti agli altri? Chi realmente crede che la propria debolezza sia il modo in cui Dio manifesta la sua forza? Vengono spese molte parole riguardo questi due termini, che unendosi forgiano titoli di convegni o di libri avvincenti: «La forza della debolezza». Si coglie il fascino di questa specie di ossimoro, ma poi occorre capire quanto si sia disponibili a lasciarsi plasmare dalla logica che esprime.
Ecco allora che persone come Nick (ma potremmo citarne tante altre) possono diventare maestri per noi, indicando con questo “noi” tutte quelle persone che fanno molta fatica a riconoscere la propria debolezza (e in effetti ognuno ha la propria) come un’opportunità per sperimentare la sufficienza della Grazia.
Le persone con disabilità mi mettono in crisi, non solo da un punto di vista personale, ma riguardo anche alle modalità con le quali portiamo avanti le proposte pastorali nella nostra diocesi e nelle nostre comunità. A fronte di una sempre più crescente sensazione di fatica, d’inefficacia, di debolezza delle nostre azioni pastorali, si raccoglie da una parte l’esistenza di uno stato di crisi, che diventa oggetto d’innumerevoli analisi e contro analisi, certamente importanti, ma che poi si fermano senza mostrare degli effettivi orientamenti di soluzione, mentre sull’altro versante si hanno le reazioni delle nostre comunità, che si muovono tra due estremi: lo scoraggiamento e la resistenza a oltranza. Nel primo caso, lo sconforto porta al disimpegno, lasciando nel cuore un senso di tristezza, di amarezza e di grande nostalgia per un passato glorioso, insieme al senso d’impotenza, che nasce dall’impossibilità di escogitare delle strategie vincenti. Nella seconda situazione, si ha invece la reazione di chi non si arrende e continua imperterrito a riproporre le solite iniziative, forse anche qualcuna in più: in questo caso si è ben intenzionati e disposti a una certa operosità, ma anche molto isterici, tesi, irrigiditi, innervositi dai segnali negativi che arrivano dalla comunità e per questo si finisce per diventare spesso anche molto litigiosi. Queste due diverse reazioni sono accumunate dal fatto che chi le vive non è disposto ad accogliere e abitare il senso d’impotenza e di debolezza e si limita a soccombere, o allo scoramento oppure alla pressione che spinge a darsi da fare in modo esagerato.
Tra il disimpegno rassegnato e l’operosità affannata forse ci può essere una terza strada, che ovviamente nessuno ancora conosce, ma che potrebbe delinearsi se imparassimo ad accettare e a dimorare nella debolezza della nostra pastorale attuale, credendo che lo Spirito di Dio sempre in azione possa portare frutti nuovi e sorprendenti di amore, di prossimità, di cura pastorale, diffondendoli tra noi proprio attraverso l’accoglienza e la valorizzazione della fragilità. Mi sembra che vada in questo senso il forte invito, che il nostro arcivescovo rivolge alla diocesi, di far riposare la terra, cogliendo così il vero senso dell’anno giubilare, ovvero di giornate in cui sia possibile vincere la lamentela frustrata e i ritmi frenetici, per assumere il tempo come occasione «per una sosta di riflessione, di considerazione riconoscente del cammino compiuto, anche per esercitare la libertà possibile rispetto alle scadenze e agli adempimenti imposti dal calendario» (Basta. L’amore che salva e il male insopportabile)
Come Consulta diocesana daremo priorità allo scrutare, individuare e raccogliere i segni di Grazia presenti nelle nostre comunità, segni che si rivelano proprio attraverso l’esperienza della debolezza, non solo delle persone con disabilità, ma di ogni persona, di ogni operatore pastorale, di ogni famiglia, di ogni parrocchia. Desideriamo lasciar riposare la terra e cogliere, con spirito di gratitudine, quella Grazia i cui frutti non si calcolano in numeri o nel successo immediato suscitato, ma nella capacità di dare vita a relazioni fraterne, caratterizzate da un’accoglienza e da una valorizzazione reciproca capaci di costruire un volto di comunità meno lamentosa, meno affannata, meno preoccupata di essere prestante, ma più coraggiosa nel mostrarsi debole, vantandosene, come dice San Paolo, perché dimori in essa realmente la potenza di Dio.