È cominciato tutto da una telefonata: tampone positivo. Lo sguardo del confratello a tratti spaventato e con tono deciso mi dice di tenermi a distanza. Comincia la quarantena.
È cominciato tutto da una telefonata: tampone positivo. Lo sguardo del confratello a tratti spaventato e con tono deciso mi dice di tenermi a distanza. Comincia la quarantena.
I Fratelli Oblati sono abituati, per loro scelta, a vivere insieme in comunità ma, ad un tratto, la casa si è trasformata in una sorta di fortino. Gli spazi abitualmente abitati e condivisi con i Padri Oblati Vicari, si sono svuotati. È sembrato ovvio trasformare la situazione in occasione e ci si è improvvisati cuochi per tutti. Pare che le nostre nascoste doti culinarie abbiano trovato favore e nessuno è perito con la forchetta in mano… anzi i piatti tornavano vuoti.
La comunità è composta anche da sacerdoti anziani che hanno bisogno di assistenza per le più svariate esigenze; in loro sono emersi sguardi smarriti, perché non capivano a pieno la gravità della situazione; sguardi di pudore perché in alcuni momenti si dovevano svolgere azioni molto personali ma tutto cessava quando capivano che si era li per loro; sguardi di gratitudine quando si passava per un saluto o per un po’ di compagnia.
Nella situazione in cui le celebrazioni pubbliche non si sono potute svolgere, noi abbiamo avuto la possibilità di celebrare quotidianamente l’Eucaristia, questo ci ha permesso di comprendere con verità la parola del Signore «Non di solo pane vive l’uomo» perché ci siamo spogliati del contorno ed è rimasto l’essenziale: noi ci giochiamo la vita non per un simbolo, non per una teoria ma per una Persona viva e presente sempre nella nostra esistenza, anche quando tutte le certezze vengono meno.
Questa situazione di isolamento fisico forzato non ci ha impedito di continuare a coltivare le relazioni con le persone care. Il silenzio attorno a noi, certamente surreale e inimmaginato, ci ha avvicinato alla comprensione del fatto che la Chiesa non è fatta di mura ma di tutti i fedeli che, seppur nelle proprie case, erano presenti in qualche modo attorno all’altare con la nostra preghiera di intercessione.
Anche le notizie di malattie e di morte di persone conosciute hanno varcato la soglia della nostra casa, abbiamo toccato con mano la paure e le sofferenze di coloro che hanno avuto parenti e amici ricoverati o deceduti, che non hanno potuto assistere e accompagnare nei momenti decisivi e finali. Abbiamo ascoltato e pregato, il Signore ha fatto il resto. La fede non toglie le paure, aiuta ad affrontarle e viverle.
La quarantena ha appiattito tutto nella vita comunitaria. Con fatica ci siamo guardati, parlati e ci siamo riconquistati, a poco a poco, spazi e orari. Può sembrare assurdo che una comunità religiosa abbia tali fatiche ma siamo uomini e come tutti gli uomini siamo soggetti alle dinamiche di tutte le case e di tutte le famiglie. È stato bello tornare a pregare insieme la Liturgia delle Ore perché è bello essere fratelli e si è fratelli quando si è insieme con Colui che ci ha chiamati.
C’è stata molta fatica a vivere il Triduo Pasquale senza il popolo, senza le consuete incombenze; è stato a tratti surreale ma forse più vero, si è potuto sperimentare la solitudine di Cristo sulla croce, si è vissuta con intensità l’attesa della Pasqua celebrata “a porte chiuse”, così come avvenne duemila anni fa.
La forza della Pasqua non sta in qualcosa di strabiliante ma noi leggiamo di luci che attraversano fessure, di lacrime raccolte in un prato… per noi la “fase 2” non potrà essere dirompente e cancellare tutto con un colpo di spugna, a noi è chiesto di essere quella luce capace di attraversare le fessure, di saper raccogliere le gioie e le lacrime di coloro che incontriamo: a noi è chiesto di essere Chiesa.
Fratelli oblati diocesani