di Luca Frigerio
Non una parola, non una presenza. Soltanto il sole, luminoso e forte come può esserlo in un’azzurra giornata d’inverno. Solamente il vento, a far marameo col naso prima di infilarsi tra i rami nudi e le grate di ferro. E si tace, per timore di spezzare l’incantesimo. E si respira adagio, per assaporare un’aria di fiaba, per tenerla dentro nel cuore, più a lungo possibile. Cornello Tasso è un luogo che non esiste. Fuori dallo spazio, probabilmente. Fuori dal tempo, sicuramente. Sappiamo che è lì, in un angolo remoto della Val Brembana, circondato da verdi montagne e da boschi di castagni. Abbiamo toccato le sue case di sasso, sfiorato le porte massicce di legno intagliato. E abbiamo visto le rose disegnarsi su un muro bianco di calce, a raccogliere le lunghe ombre di tetti e comignoli. Ma che vuol dire? Credete, questo paesello in verità non esiste. Non può esistere. È la proiezione di un desiderio, lo svelarsi di un sogno. Oppure no. Dieci, quindici case aggrappate su uno sperone erboso, balaustrate sul Brembo che scorre ignaro laggiù in fondo. E poi la chiesa con il suo campanile, il sagrato appartato, i portici ombrosi. A corredo, una fontanella, qualche scalino, dei glicini, un paio di gerle appese a delle travi massicce, annerite dagli anni. Cornello Tasso è tutto qui. Poco? Pochissimo. Ma, proprio per questo, meraviglioso. Non vi si arriva che a piedi, per un sentiero che promette molto e che alla fine offre ancora di più. Qualcosa già si intravede, lungo il sentiero. Si intuisce un profilo nero contro il cielo, la sagoma di una torre tra il fogliame. Eppure non si è preparati all’incontro con Cornello, che è improvviso, che è imprevisto. Ad accoglierci una porta d’altri tempi, di medievali memorie, incastrata e custodita in una casa-fortezza. Oltre vi è un arco in pietra, e poi un altro, e un altro ancora. Si esita. Si attende che qualcuno ci inviti a entrare, a proseguire. Non è timore il nostro, semmai rispetto. Si sta come sulla soglia di un tempio, come al limitare di un giardino segreto. Poi giochi di luce ci chiamano, lame di un biancore abbagliante alternate a un nero di notte. La strada porticata reclama i nostri passi, ma che siano discreti. E attenti. Più su, dove le case cedono il passo ai prati, il vescovo Eligio si mostra intento a ferrare un cavallo, sulle pareti affrescate della bella chiesetta. Gli sorride di fronte la giovane Agata, incurante del terribile martirio, mentre un sant’Antonio Abate legge con attenzione dal suo libro storie edificanti di eroi della fede. Colori che vibrano, e sempre nel silenzio. Incredibile a dirsi, Cornello fu borgo importante nel territorio, vivace di commerci, animato da viandanti e artigiani. Cerniera tra l’alta e la bassa valle, in mezzo alle sue case si doveva passare per forza, mentre i mercanti esponevano i loro tesori piccoli e grandi, i contadini e gli allevatori i loro prodotti. Perfino gli imperatori che calavano d’oltralpe – narrano le cronache, dicono le leggende – si fermarono qui, a mezza strada tra i passi montani e la città di Bergamo, per ricevere l’omaggio dei diplomatici della Serenissima. Poi tutto cessò, improvvisamente, inesorabilmente. Non fu a causa di un maleficio, né di un cataclisma, ma l’effetto in fondo fu forse lo stesso. Correva l’anno 1592, e una nuova strada veniva aperta giù a valle, più veloce, più agevole, a costeggiare il fiume, sfociando in pianura. Una rovina, per Cornello. Pochi da allora si arrampicarono sui suoi sentieri, pochi vi scesero carichi di mercanzie. I porticati rimasero vuoti, orfani delle grida dei banditori, deserti di acquirenti e venditori. Mute le ricche dimore, destinate a un rapido declino. E le botteghe si trasformarono in stalle, i laboratori in scure cantine.