di Giuseppe Casale,
arcivescovo emerito di Foggia-Bovino
Il pellegrinaggio ai Santuari, quando non si riduce a gita turistica (e, purtroppo, può accadere) esprime il desiderio di incontrare Dio, dà un senso all’andare dell’uomo, spesso travolto dal frenetico ritmo della vita.
L’uomo d’oggi corre, si agita. Le nostre città sono diventate più luogo di scontro che di incontro. L’anonimato urbano è una drammatica realtà. Per cui si rimane soli, pur avendo migliaia di persone a contatto di gomito nelle strade affollate, nei mezzi pubblici di trasporto, nei grandi condomini, negli stadi, nei supermercati, nelle sale pubbliche, …
Va riscoperto il senso del pellegrinaggio per ritrovare nella luce di Dio l’autentico rapporto con l’uomo.
Un rapporto che si illumina della gioia di camminare insieme verso la casa, verso la propria casa. La casa dove si raccoglie la famiglia, dove si riaccendono gli affetti, dove si incontra il Padre. Dove si pregusta una casa ancora più bella, la Città di Dio ove la gioia sarà corale. “Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato per loro una città”. (Ebr. 11,16).
Una città che non si raggiunge evadendo dagli impegni nella storia, nella quotidianità. Una città che si costruisce nel cantiere della storia, ove giorno per giorno bisogna vivere da figli di Dio e da fratelli.
Chi è stato a Lourdes (e in altri Santuari) ha vissuto non soltanto la profonda emozione religiosa della preghiera, ma ha avvertito l’esigenza di stringere a sé i fratelli, soprattutto gli ammalati.
Ho visto cristiani non praticanti o addirittura degli increduli abbracciare gli ammalati e vivere un intenso rapporto di comunione con loro.
Può questo atteggiamento prolungarsi nella vita di ogni giorno? Può il pellegrinaggio continuare nella casa, nella scuola, nella fabbrica, nell’ufficio?
Lo può certamente. A condizione che la religiosità popolare non diventi puro folklore o superficiale momento di evasione.
(Tratto dall’introduzione al libro fotografico
di Pepi Merisio: "Giorni di festa", 1983)