Lo sport come straordinaria palestra educativa, luogo in cui imparare la solidarietà, l’amicizia, il saper perdere e il fare squadra. Insomma, dove crescere come donne e uomini maturi in quella grande partita che è la vita.Nella VI domenica dell’Avvento ambrosiano, il Duomo si affolla di responsabili – presenti Oreste Perri presidente del Coni Lombardia, l’assessore regionale allo Sport e alle Politiche per i giovani, Antonio Rossi (entrambi olimpionici di Canoa-Kayak), Massimo Achini, presidente del Csi Milano -, educatori di società sportive, ragazzi e genitori, volti noti di campioni e campioni di tutti i giorni, magari alle prese con il campetto del proprio oratorio.
A tutti si rivolge l’Arcivescovo che presiede l’Eucaristia, concelebrata da membri del Consiglio Episcopale Milanese, dai Canonici del Capitolo metropolitano, dal segretario della Consulta Diocesana per lo Sport e assistente ecclesiastico nazionale del Csi, don Alessio Albertini e da tutti i responsabili della Pastorale giovanile.
Nella domenica dell’Incarnazione e della letizia, nella quale la parola di Dio indica la potenza della gioia che nasce dalla venuta del Salvatore, la banalità dell’insoddisfazione, il dolore della sofferenza fisica o spirituale, la solitudine, non possono oscurarne la forza.
«La letizia è insidiata dalla banalità: il niente diventa tutto, impegnati a seguire i propri capricci, c’è sempre qualcosa che manca, l’animo diventa meschino e il capriccio ne diventa padrone».
Fatto, questo, che può succedere a ogni età, ma che si può vincere, suggerisce l’Arcivescovo.
«La banalità è sconfitta se irrompe nell’animo un’annunciazione che invita a sollevare lo sguardo, che apre a orizzonti più affascinanti, che sorprende con una parola che introduce alla stima di sé. L’annunciazione è la parola amica che gli angeli inviati da Dio portano nella vita di ciascuno».
Angeli che possono essere i genitori, il prete o la catechista, l’animatore o il dirigente sportivo. «Forse ciascuno di noi può essere quell’angelo che dice: “Rallegrati, amico. Il Signore sa che puoi fare grandi cose, ha stima di te, conta su di te. Il cammino verso la gioia può cominciare anche adesso, se ti scuoti di dosso la banalità che ti rende lamentoso».
E così vale anche per la sofferenza, di cui è emblema biblico Giobbe, il tribolato per eccellenza.
«Come faccio a essere lieto, se sono tormentato dalla sofferenza? Se nel mio corpo è entrato un nemico che logora le forze, se avverto dentro di me una minaccia che spaventa, che mi pesa addosso come una angoscia, un’inquietudine. Come faccio a essere lieto se in casa mia, tra le persone che mi sono più care, è piombata una disgrazia, una malattia? Se gli affetti più preziosi sono diventati un campo di battaglia, se tra le persone che amo di più si accaniscono litigi, cattiverie, rotture insanabili?», si chiede e chiede l’Arcivescovo.
Laddove «il soffrire è quel grido che si alza come l’accusa più forte contro l’amore di Dio, il dolore innocente suona come l’enigma insolubile che rende incomprensibile la Sua esistenza; se il male sembra una forza così indiscutibile che rivela la debolezza o l’inadeguatezza di Dio stesso», l’angelo è all’opera. Comunque e sempre.
«L’annuncio dell’angelo che invita alla gioia non si lascia confondere dalle lacrime e dagli strazi che tormentano i figli degli uomini, piuttosto rivela la via di Dio per affrontare il dolore di quelli che ama: non è un trattato di teologia, non è la promessa di una soluzione rimandata, non è il magico dissolversi del dolore. È la rivelazione di una comunione: il Signore è con te».
E, infine, Simeone l’uomo solo.
«Come fare festa se la mia casa è deserta, se non sono invitato da nessuna parte, se le persone che mi sono care si sono dimenticate di me? La solitudine ospita la tristezza, non la gioia. Ma, per vincere l’obiezione della solitudine ci vuole l’annunciazione di una missione».
È, infatti, anche nella desolazione che irrompe quella parola che chiama: “Esci dalla solitudine, fatti avanti per servire”. La solitudine si vince costruendo rapporti e non chiedendo attenzione, perché si fa quadra, superando l’egoismo del non essere cercati, di chi si offende perché non è il primo. L’angelo rivela che la vita è vocazione a servire l’edificazione del Regno che non avrà fine».
Forte e chiaro per ciascuno risuona, tra le navate, il messaggio: «L’angelo è già venuto e la missione può cominciare perché Dio stesso si è fatto vicino a coloro che soffrono con la sua Croce. Siate sempre lieti, voi che vi curate dei ragazzi, voi che praticate lo sport non considerandolo un idolo a cui sacrificare tutto, ma una palestra per imparare ciò che è nobile, vincendo la solitudine, comprendendo il dolore di coloro che soffrono. Preparatevi così al Natale».
E, alla fine, c’è ancora tempo per un’ultima consegna: «È Gesù che fa il Natale. Ho proposto, nel Discorso alla Città, la “legge della Decima”. Anche a voi dico, per 10 ore di pratica dello sport, offritene una a chi non può: una nonna, un compagno che non può giocare, andate a trovare persone malate. Per ogni 10 ore, dedicatene una per consolare, visitare, rendere lieta la vita di qualcun altro. Non è una legge rigida, ma una regola per darsi un criterio, perche lo sport è una straordinaria opportunità educativa se è inserito dentro una comunità educante e un cammino complessivo di maturazione umana e cristiana. È una proposta di saggezza».