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Milano

«La fede cristiana è fede di popolo, non la fragilità basata su un io arrogante e spaventato»

In Duomo, a porte chiuse e senza battesimi dei Catecumeni, l’Arcivescovo ha presieduto la Veglia pasquale. «Gesù è risorto e un popolo nuovo in cammino è convocato, la missione è cominciata»

di Annamaria BRACCINI

11 Aprile 2020

La Veglia pasquale che, anche in questo momento «mortificante», è e rimane «la madre di tutte le Sante Veglie”, come la definì sant’Agostino. Anche se, in Duomo, mancano i fedeli tra le navate e, nelle prime file, non trovano posto i Catecumeni che avrebbero dovuto ricevere i Sacramenti dell’iniziazione cristiana; anche se, appunto, non c’è il loro battesimo ma vi è comunque la benedizione dell’acqua lustrale in altare e il rinnovo delle promesse battesimali per tutti; anche se chi segue la Celebrazione attraverso i mezzi della comunicazione diocesana, può solo pronunciare la preghiera della Comunione spirituale; anche se unicamente l’Arciprete, l’Arcidiacono della Cattedrale e un numero limitato di Canonici del Capitolo concelebrano; anche se, nella preghiera dei fedeli, il numero pronunciato, dei più di 19.000 morti per la pandemia nel nostro Paese, risuona come grido di dolore.
Eppure, tutto parla di Risurrezione e di speranza. E, così, la Veglia “vive” e fa vivere con il suo rito antichissimo che, si apre, con la Liturgia della luce, l’accensione del grande Cero posto in altare maggiore e il canto in latino dello splendido e solenne Preconio pasquale ambrosiano, risalente al V-VI secolo, quale sintesi poetica e altissima dell’intera storia della salvezza. Si ascolta la straordinaria abbondanza della Parola di Dio, proclamata significativamente da rappresentanti di diversa origine etnica – dalle Filippine al Perù -, appartenenti a una Chiesa di Milano che vuole essere sempre più Chiesa dalle genti. Dopo le 6 Letture tratte dal Primo Testamento, prefigurazione dell’incarnazione e del sacrificio di salvezza di Cristo, finalmente, il triplice annuncio della Risurrezione “Christus Dominus resurrexit”, peculiare del Rito ambrosiano, in tutto simile al “Cristòs Anesti” della liturgia bizantina nella Pasqua ortodossa, viene cantato, con voce sempre più alta, dall’Arcivescovo ai tre lati dell’altare maggiore della Cattedrale. Le campane che si sciolgono, l’Alleluia che si alza, raccontano la gioia di questo momento. Si entra nel nuovo Testamento con le tre ultime letture, concluse dal Vangelo di Matteo. E, allora, il richiamo del Vescovo Mario alla nostra fede fragile, sembra che trovi, proprio nella Veglia che non dimenticheremo, un’occasione di crescita, di riflessione e di ripartenza, oltre gli egoismi, le inquietudini, la depressione del mondo e del nostro Terzo millennio cristiano. Tanti gli interrogativi dai quali prende avvio l’omelia.

L’omelia dell’Arcivescovo

«Perché la nostra fede è così fragile? Perché l’imprevisto diventa una obiezione sconcertante per la nostra fede? Perché la tragedia che irrompe nella vita di una persona, di una comunità o di una famiglia, mette in crisi la fede di chi nel suo credo professa la Risurrezione? Perché professarsi cristiani, cioè popolo che crede in Cristo, è diventato così imbarazzante nei rapporti quotidiani? Perché si considera più motivata la cautela piuttosto che il coraggio, l’inquietudine piuttosto che la pace, la disperazione piuttosto che la speranza?».
Ancora, «Perché sembra che tutto sia più interessante della verità più essenziale? Perché ogni particolare di cronaca, ogni stranezza di personaggi famosi, ogni battuta di politici, ogni indice economico merita più attenzione della questione decisiva: che senso ha la nostra vita?
Appunto perché la fede è fragile di quella fragilità che ha, come altro nome, la solitudine dell’“io” che fatica a comprendersi e a diventare un “noi”.
«Un “io” così arrogante che si impone come principio del bene e del male, ma che adesso è stanco; così narciso che continua a compiacersi di sé, delle sue certezze e dei suoi tormenti, ma che adesso è depresso: non si piace come una volta ed è spaventato, la sua libertà è come una prigione di solitudine». Per questo, la Veglia pasquale con la convocazione intorno al Risorto, rende presente la fede di un popolo intero.
«La Veglia convoca l’universo, interpreta il mondo come una creazione, come un desiderio di Dio di dare casa all’uomo e alla donna e interpreta la storia come il racconto di un’alleanza eterna che raduna il popolo amato da Dio, chiamandolo a libertà, che dà buone ragioni per attraversare il deserto per la promessa di una terra benedetta. La Veglia fa memoria dello spavento che è diventato missione, così comincia la Chiesa, come popolo in cammino nella storia. La veglia di Pasqua, così mortificata quest’anno, si celebra per dare alla fede cristiana il fondamento: Gesù è risorto e un popolo nuovo è convocato, la missione è cominciata».
Solo in tale modo è possibile vivere la fede cristiana: «perché siamo popolo che ascolta, che obbedisce alla parola ascoltata, che celebra la presenza di Gesù risorto». E, forse, proprio le “mancanze” di questo anno possono aiutarci a capire, fino in fondo – come sempre accade quando si perde qualcosa di apparentemente scontato – ciò che siamo, vogliamo e dobbiamo essere.
«In questa Veglia senza battesimi comprendiamo meglio il nostro battesimo. Senza abbracci e scambi di pace, comprendiamo che la nostra fede edifica rapporti: più che la gelosa libertà di un “io” cauto nei legami e allergico ai vincoli definitivi è decisione di servire per vivere la vita dei figli di Dio. In questa Veglia, che esclude troppi commensali dalla comunione sacramentale, comprendiamo meglio la nostra fame: senza lo spezzare del pane non si aprono i nostri occhi a riconoscere la presenza di Gesù. Più che la presunzione di un “io” che si procura quello che gli serve, è necessario sedere a mensa e condividere quel pane che fa dei molti un solo corpo e un solo spirito».
​Mai come ora il significato della Pasqua, come passaggio a vita nuova e liberazione, diviene, così, un compito e un impegno. Quello che l’Arcivescovo consegna a tutti: «Liberaci dall’isolamento e dalla solitudine. La nostra fede è ambientata nel mondo creato da Dio per ospitare l’amore. Alla nostra fede è necessario un popolo con cui condividere il cammino, è necessaria la Chiesa».

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