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Sirio 11 - 17 novembre 2024
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Milano

«Anche la malattia può essere occasione di conversione e di relazione con il Signore»

Presso la “Casa Cardinale Ildefonso Schuster”, si è svolto il Convegno dal titolo “Il volto del Dio vicino”, promosso in occasione della XXVIII Giornata Mondiale del Malato. In apertura, la Lectio Magistralis dell’Arcivescovo

di Annamaria Braccini

8 Febbraio 2020

«Voi siete i volti del Dio vicino quando assistete, andate dai malati, portate loro l’Eucaristia». L’Arcivescovo si rivolge così agli oltre 500 partecipanti, riuniti presso il “Casa Cardinale Ildefonso Schuster”, per il Convegno dal titolo, appunto, “Il volto del Dio vicino”, promosso dall’Arcidiocesi con il suo Servizio per la Pastorale della Salute, in occasione della XXVIII Giornata Mondiale del Malato.

Il vescovo Mario, cui sono accanto il vicario episcopale di Settore, monsignor Luca Bressan e don Paolo Fontana, responsabile del Servizio per la Salute, nella sua Lectio Magistralis, prende avvio dal titolo del Messaggio del Papa per la Giornata, “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi”, e nota: «Questi due aggettivi vengono applicati perché nella malattia non vi è solo una condizione patologica, magari cronica, ma anche fatica».

«Il malato è stanco perché la condizione della malattia comporta aspetti come la mancanza di riposo, anche se si sta a letto tutto il giorno; la fatica fisica, la debolezza sono imposte dalle cure e dalle terapie, la stanchezza può venire anche per l’attesa delle visite del medico, dei parenti, del cappellano».

“Oppressi” definisce, invece, una condizione psicologica con «l’angoscia del presente e delle prospettive, la mortificazione per l’isolamento dalla famiglia, dalle persone care, dagli ambienti e dai ritmi ai quali si era abituati. E questo vale anche nella vecchiaia che si prolunga».

Ovvio, quindi, che tutto ciò richieda, specie per chi opera in campo medico e assistenziale, «di mettersi nei panni del malato, con condivisione e compassione», nel senso etimologico del “sentire insieme”, secondo quanto suggerisce l’Arcivescovo.

Poi, la «situazione del malato che, come ogni condizione umana, conosce le tentazioni, con un nemico che può indurre al ripiegamento su di sé, alla depressione, all’isolamento, al risentimento verso Dio, all’aggressività verso il personale sanitario, coloro che condividono la condizione di malattia in ospedale o chi assiste a domicilio».

Eppure, anche la malattia può essere «un’occasione, un tempo propizio per la salvezza, la santità, la carità», afferma il Vescovo declinando 3 aspetti e richiamando la sua Proposta pastorale per questo anno, “La situazione è occasione”.

«Ascoltare la voce di Gesù che è alla porta e bussa, anche quando uno è anziano e chiuso in casa, anche se si è in una camera di ospedale. Il Dio vicino, parla, chiama, sollecita a rispondere e ne nasce una relazione che salva. Certamente anche voi, noi tutti, dobbiamo essere capaci di relazione con i sofferenti, ma per far capire questo principio di salvezza».

Diventando, insomma, mediatori della salvezza offerta da Gesù da cui può venire «anche una conversione».

Inoltre, poiché nella malattia «le parole del Vangelo possono risuonare in modo mai sperimentato prima», l’occasione è ascoltare «la voce di Gesù chiama a percorsi di fede: la Parola che chiama, la libertà che risponde, la relazione che ne nasce verso la comunione. Così il malato riceve l’annunciazione che lo distoglie dal ripiegamento su di sé».

«Si diventa santi perché si diventa docili. Vediamo, talvolta, i santi come eroi, ma anche loro sono divenuti tali, non perché erano personalità da leadership, ma perché sono stati docili allo Spirito mettendo a servizio le loro qualità. La santità del malati può essere quella docilità in cui si rivela, in modo più evidente, l’opera di Dio. Voi – scandisce l’Arcivescovo di fronte all’attentissimo uditorio – ne siete testimoni quando gente che è nella malattia, prega, spera, è serena, vedendo la vita eterna non come una visione fumosa che fa paura».

​Terzo: «Non vi è situazione che non fa presente quell’amore che rende capaci di amare. Anche i malati, perché docili allo Spirito, sono capaci d amare, non piangendo su se stessi, ma aiutando, essendo solidali, pregando.

 

Sulla “Chiesa ospedale da campo vicina a tutti i sofferenti”, si sofferma la relazione di monsignor Luca Bressan.

Si parte da un’immagine di San Carlo che porta la comunione agli appestati e dalle parole del Papa nella famosa intervista in cui parlò della “Chiesa ospedale da campo dopo una battaglia”.

«Troppa tecnica esclude la compassione, o meglio, ci nascondiamo nella tecnica perché non siamo più capaci di compassione. Non è la storia dei nostri ospedali?».

L’icona biblica di riferimento è la narrazione, notissima, della passione di san Paolo di Atti 27-28. «Un racconto dell’angoscia molto accurato. Paolo passa di prova in prova con un aumento del rischio della vita, intuendo prima degli altri ciò che accade. È il modo che abbiamo anche noi per vivere le nostre sofferenze lasciando emergere il racconto della passione di Cristo».

Non a caso, san Carlo come san Gerolamo Emiliani (di cui ricorre la festa liturgica l’8 febbraio e che morì di peste per curare i contagiati) sono immersi tra i malati, «creando una capacità di condivisione in cui giocare tre elementi che vengono dall’abitare la passione di Cristo: la capacità di parlare di Gesù, la possibilità di aiutare tutti a rimanere persone umane – il medico, il malato e anche il prete – e la medicina salutis (che la definivano i Padri). Essere guariti in senso forte vuol dire comprendere l’amore di Dio, nonostante ciò che si sta vivendo e soffrendo».

«Il rischio è che la nostra società tecnicizzata, non offra più casa. Pensare come essere dispensatori di medicina salutis significa costruire una casa per chi è malato».

Questo, d’altra parte, è l’obiettivo del Master di alta formazione promosso dalla Diocesi e dalla Regione (in corso) che intende dare basi scientifiche al profondo ripensamento in atto nella nostra Chiesa, relativo alle comunità di cura che devono coinvolgere a pieno titolo, oltre i medici e il personale sanitario, i cappellani, religiose e religiosi, familiari.

«Occorre capire che, in questo ambito, la religione è elemento essenziale – cosa che promuove anche il dialogo ecumenico e interreligioso -, perché possiamo, magari, curare benissimo, ma se non teniamo contro della dimensione spirituale, la persona non guarisce davvero». L’esempio – virtuoso – è il questionario “STIV – Senso, trascendenza, identità, valori” di 40 domande, somministrato nel mondo nordamericano da cappellani di diverse fedi, per comprendere quale sia la condizione spirituale del malato.

«Di fronte al problema dello sfilacciamento del legame di fiducia con i medici, si tratta di ricrearlo, evitando di diventare dei funzionari. Bisogna portare legami di cura, mettendo al centro la relazione», conclude monsignor Bressan.

Poi qualche domanda dal pubblico e la Tavola Rotonda con la presentazione di 4 esperienze belle e costruttive. Roberto Mauri, presidente della RSA “La Meridiana” di Monza, con “Il paese ritrovato”, un nuovo modo di accompagnare i malti di Alzheimer, con attenzione alla vita della persona, alla sua spiritualità e alla dimensione di fede. «Cerchiamo di dare risposte di senso nella vicinanza. Ormai anche ricerche importanti ci dicono quanto la speranza incide sulla cura delle persone».

Poi, Francesco Agrusti nel direttivo nazionale di Avulss, Federazione nazionale laica di ispirazione cristiana, con 8000 volontari e 200 Associazioni aderenti, che si impegna, in modo specifico, nella formazione, e nella presenza sul territorio. E, ancora Antonio Villa volontario di Oftal che approfondisce il senso della spiritualità del pellegrinaggio e don Mauro Santoro, cappellano del “Centro Vismara” nel quartiere Gratosoglio dove si accolgono disabili e le loro famiglie.

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