Sta per scoccare l’appuntamento più atteso dal mondo dello sport: dal 5 agosto gli occhi di miliardi di persone saranno puntati sulle Olimpiadi di Rio de Janeiro. Mai come quest’anno, però, sarà difficile separare il fatto sportivo dal travaglio che il Paese ospitante sta vivendo. La domanda è: per il Brasile saranno i Giochi della fine di una parabola o il momento di passaggio nella crisi di un Paese giovane in crescita?
Era il 2 ottobre 2009 quando a Copenhagen il Comitato olimpico internazionale scelse Rio come sede della XXXI Olimpiade: prevalse su Madrid e l’assegnazione dei Giochi si aggiunse a quella dei Mondiali di calcio del 2014, decisa dalla Fifa di Sepp Blatter due anni prima. Non fu una sorpresa: erano gli anni in cui il Brasile del presidente Ignacio Lula da Silva si affermava come una star della geopolitica; gli anni in cui si cominciava a parlare dei Brics, l’acronimo formato dalle iniziali di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, le nuove potenze economiche emergenti e alternative al G7. Dentro a quel gruppo proprio il Brasile di Lula suscitava le maggiori speranze, grazie ai risultati raggiunti nella lotta all’emarginazione: 40 milioni i brasiliani usciti dalla povertà grazie al programma di assistenza sociale Bolsa Familia, un aiuto finanziario condizionato alla scolarizzazione dei figli.
Due anni dopo anche la Chiesa cattolica ci avrebbe messo lo zampino, con l’annuncio di Benedetto XVI che pure la Giornata mondiale della gioventù avrebbe fatto rotta su Rio de Janeiro. Allora nessuno poteva sapere che nell’estate 2013 a presiederla sarebbe stato il primo Papa latino-americano (anche se – per dirla calcisticamente – di provenienza albiceleste anziché verde-oro…). Nel frattempo era arrivato anche il passaggio delle consegne tra Lula e Dilma Rousseff, l’erede designata nel segno della continuità nel Partito dei Lavoratori.
Durante la Gmg di Rio si tenne un breve, ma significativo incontro tra il Papa e una delegazione del mondo dello sport (in prima fila l’immancabile Pelé, la leggenda del calcio): quel giorno Francesco diede la sua benedizione alle bandiere olimpiche. Ma le contraddizioni del modello Brasile stavano già iniziando a esplodere: poche settimane prima si era tenuta la Confederation Cup, torneo tra Nazionali di calcio considerato la prova generale del Mondiale. E già allora centinaia di migliaia di persone erano scese in piazza per protestare contro la corruzione e le ingenti spese sostenute dal Paese per la costruzione dei nuovi stadi. Troppo legato all’andamento dei mercati delle materie prime, il miracolo economico del Brasile, per poter durare a lungo, assecondando comunque le richieste dell’economia globale, senza intaccare le ingiustizie più profonde del Paese e finendo poi a colpire sempre i più deboli: le comunità indigene che vivono in foreste dal ricco sottosuolo, le favelas “ripulite” perché troppo vicine agli stadi…
Così – alla vigilia del grande evento del 2014 – le proteste di piazza contro Dilma si erano fatte ancora più imponenti. Anche se poi – arrivati al calcio d’inizio – a prevalere era stata la voglia di festa dei brasiliani. Con un finale amaro, però: l’8 luglio tutto il Paese visse lo psicodramma della selecao, sommersa 7-1 dalla Germania nella semifinale di Belo Horizonte; una di quelle pagine di sport che finiscono per fotografare da sole un momento storico, rivelando qualcosa di ben più profondo di una partita di calcio.
Uscì fragile, il Brasile, dai Mondiali di calcio. E – quasi a corollario – nell’autunno 2014 uscì fragile anche Dilma dalle nuove elezioni presidenziali: riconfermata alla guida del Paese, sì, ma con un margine molto ristretto. Il resto è cronaca degli ultimi mesi: l’accentuarsi della crisi col crollo dei prezzi delle materie prime, lo scandalo Petrobras (il gigante petrolifero brasiliano) con le accuse di corruzione ai vertici del Partito dei Lavoratori, Lula compreso. E poi il dilagare del terribile virus Zika, dovuto – fondamentalmente – alla permanente inadeguatezza dell’assistenza sanitaria di base nelle aree più povere delle città.
Un Paese disilluso
Così il 12 maggio è arrivato il voto del Parlamento che ha sospeso per sei mesi la Presidente dalle sue funzioni, in attesa del voto sulla destituzione: Dilma non è accusata personalmente di corruzione, ma di aver truccato i conti dello Stato per nascondere i buchi di bilancio (pratica abbondantemente utilizzata anche dai suoi predecessori). Il suo posto è stato preso dal vicepresidente, il centrista Michel Temer, che ha formato un nuovo governo con l’appoggio dei grandi potentati economici del Paese. Non stupisce che i sostenitori del Partito dei Lavoratori abbiano gridato al golpe contro Dilma; del resto anche Temer si trova già a fare i conti con gli stessi scandali. Ma la verità è che il Paese reale resta comunque lontano e parecchio disilluso.
Ed è in questo preciso Brasile che a Rio si accenderà la fiamma olimpica. Non saranno i giorni dell’orgoglio nazionale, come a Pechino nel 2008; non avranno nemmeno la forza dell’autocandidatura a crocevia globale che c’era dietro i Giochi di Londra del 2012. Al glorioso Maracanà, nella cerimonia di apertura del 5 agosto, non mancherà il Brasile del samba e dei colori; ma non sarà possibile nascondere le difficoltà del momento. Probabilmente sarà un’Olimpiade più vera, meno lontana dall’illusione che le bandiere e la festa dello sport possano far dimenticare le ferite e le fatiche del mondo di oggi.
Anche per questo – forse – una delle istantanee più forti in questi Giochi sarà la squadra di dieci rifugiati, in fuga dai propri Paesi, che sfileranno sotto la bandiera del Cio. Tra loro vi sarà la nuotatrice siriana Yusra Mardini, che ha nuotato anche per sopravvivere nelle acque dell’Egeo. Ma anche i profughi del Sud Sudan, che si sono scoperti mezzofondisti nei campi di accoglienza del Kenya e che – allenati da una leggenda della maratona (e della solidarietà) come Tegla Loroupe – hanno raggiunto i tempi minimi per partecipare a un’Olimpiade. Storie di riscatto e di futuro. Buone per la Rio di oggi, oltre che per il mondo intero.