«Abbiamo individuato l’attacco del sentiero e dovremo trovare le forme per andare avanti su questo lavoro». Il cardinale Scola è soddisfatto del dibattito emerso nella sessione del Consiglio presbiterale di lunedì e martedì scorsi. Il tema è decisivo nella pastorale diocesana, riuscire ad annunciare il Vangelo a quella età di mezzo, che spesso si “perde” per i mille impegni che questa stagione della vita comporta.
«Non abbandonerei l’espressione età di mezzo, certamente impropria e sociologica, ma che dice immediatamente di più di età adulta – precisa l’Arcivescovo -, dato che questa va avanti fino alla quarta età. Non dobbiamo disprezzare il fatto che quando dopo i 65-70 subentra la paura della morte, molti ritornano. Il Signore ci salva nei tempi e nei modi che giudica lui. Terrei dunque età di mezzo, perché è proprio il periodo che individua il momento cruciale in cui le dimensioni costitutive dell’esperienza elementare comune a ogni uomo (affetti, lavoro e riposo), premono sull’io e fanno venire a galla la sua effettiva consistenza».
Ma Scola mette in guardia da due errori. Innanzitutto «non esistono i lontani, perché non esiste uomo o donna che non faccia tutti i giorni esperienza elementare degli affetti, del lavoro e del riposo in vista del suo compimento, della felicità. O come dice Gesù se suoi essere perfetto o compiuto, se vuoi essere libero, vienimi dietro e sarai libero davvero, cioè le due categorie fondamentali del postmoderno. I lontani non verranno in chiesa, a Messa, ma non sono lontani dal cuore della proposta evangelica. Anzitutto occorre essere netti su questo fatto che nessun uomo è lontano dalla proposta che, attraverso Gesù, Dio ci fa. Una carta velina di un millimetro è quella che separa la libertà di ogni uomo da Dio. Ed ecco che Dio la sfonda in ogni momento».
Secondo errore: «La pastorale non è mai strategia, ma la missione è la sovrabbondanza del cuore, è l’impossibilità di tenere per sé ciò che si ha gratuitamente ricevuto e lo si comunica di fatto. Ecco che torna la parola testimonianza – afferma il Cardinale -. Il problema non è quello che oggi ne abbiamo 5 che vengono in parrocchia e 55 no e allora inventiamo strategie perché diventino 555. Il problema è come io e la comunità a cui appartengo mi consente quel cammino e la crescita di esperienza quella conversione permanente e ascesi in senso forte, che mi fa affrontare l’umano in quel modo che si comunica vivendo».
Continua la riflessione di Scola condividendo «l’affermazione che una attenzione delle nostre comunità è già in atto». Ma indica anche due problemi urgenti. In primo luogo, un «interrogativo continuo sulla consistenza delle nostre comunità, sulla consistenza umana nel senso proprio della parola. Affrontiamo veramente l’esperienza elementare delle persone nella comunità a partire dall’eucarestia, dall’immedesimazione con la parola di Dio, dalla carità, dalla liturgia, dal giudizio sulle cose, dalla cultura? Tutto questo esige persone toccate e segnate nel quotidiano da Cristo, attraverso l’appartenenza a una Chiesa che si rende visibile, incontrabile, nella quale uno si deve poter imbattere».
In secondo luogo, l’Arcivescovo pone la questione della «dilatazione missionaria delle nostre comunità: questa non è una strategia, ma è semplicemente un processo di maturazione di tutti i membri della comunità. Uno che crede a queste cose e le sperimenta come una pienezza della sua dimensione affettiva e lavorativa, dove pienezza non vuol dire assenza di contraddizione, di conflitto e di peccato, la comunica in tutti gli ambienti dell’umana esistenza. Questo è il vero compito dei laici. Una consistenza comunionale da una parte e da qui apertura missionaria a partire dalla vocazione e missione di ciascuno della comunità: se uno fa l’insegnante la scuola sarà il suo ambiente, se una fa l’hostess l’aereo sarà il suo ambiente, ecc. Da questo punto di vista senza forzature, dato che la vita si comunica solo attraverso la vita, un evento con un altro evento. La Resurrezione si comunica attraverso l’evento eucaristico che vive nella comunità».