«Rovesciamo il modo in cui guardiamo la crisi». Non più come un’emergenza da affrontare solo con piccoli rimedi in attesa di tempi migliori. «Ma come circostanza che ci mette in azione in modo rinnovato e diverso», convinti che la storia non sia un tiro di dadi, «ma un disegno ultimamente buono» e che «tutto ciò che ci è dato è per il nostro bene. Anche la circostanza che si presenta con un carattere negativo, particolarmente difficile». Noi sappiamo che «se siamo chiamati a passare attraverso questa fase c’è un perché. E sicuramente c’è una via d’uscita». È una parola di speranza quella che il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, rivolge ai volontari del Fondo famiglia lavoro riuniti lunedì pomeriggio al Centro congressi della Fondazione Cariplo, a due passi da piazza della Scala.
Non è un caso che Scola abbia scelto l’8 settembre per questo convegno. L’inizio dell’anno pastorale è una data simbolica che parla di ripartenza. Ciò che molti lavoratori, commercianti, industriali, operai si augurano dopo anni di difficoltà causate dalla crisi economica. Molti di loro si sono rivolti al Fondo, nei cinque anni di attività dalla fondazione su un’idea del cardinale Dionigi Tettamanzi. Un’esperienza, la definisce l’arcivescovo, «piccola e paradigmatica, ma che può essere un segnale per altre iniziative analoghe, e per concepire la vita buona nella nostra realtà milanese. Un’esperienza possibile grazie a voi», afferma poi rivolto alla platea. E un aiuto concreto che la Diocesi intende proseguire «perché alla Chiesa sta a cuore l’uomo concreto, non l’uomo in generale. Come manifesta la presenza capillare delle nostre parrocchie, delle associazioni, dei movimenti». Come sosteneva Sant’Ambrogio, ricorda Scola: Gesù vuole arrivare fino alla soglia della tua liberta personale. Lui è lì che bussa, poi aprire è una questione personale. È qui la ragione dell’impegno della Chiesa a fianco delle famiglie.
Per attraversare la crisi, spiega Scola, «sento spesso dire della necessità di innovazione e crescita. Voglio aggiungere che non si potranno avere se non si uniscono alla cultura e all’educazione. La difficoltà in cui ci troviamo proviene anche dall’aver astrattamente separato, storicamente, questi quattro elementi». E invece il bisogno attuale, «sul quale l’Expo può rappresentare un’occasione di riflessione, è quello di un nuovo umanesimo. Uomini e donne che si chiedono, davanti alla fase di travaglio attuale e di cambiamenti più che epocali, “che uomo voglio essere io?”, “che uomo vuole essere quello del terzo millennio?”». Vogliamo essere «uomini di relazione oppure uomini trincerati dietro un uso inadeguato delle strabilianti scoperte scientifiche e tecnocratiche, riducendoci a frutto di un autoesperimento?». Dobbiamo ritrovare, conclude, «una nuova capacità di relazione che implichi una modificazione radicale».
E allora la conclusione è un messaggio rivolto direttamente ai giovani, ai quali il cardinale raccomanda di ritrovare un concetto elementare del senso del lavoro. Vale a dire «mantenere sé e la propria famiglia. Poi c’è tutto il resto, come ad esempio l’autorealizzazione. Ma mi sembra che, dai dati presentati, sia un elemento di cui si sta acquisendo coscienza tra i più giovani».
Il riferimento è ai dati presentati pochi minuti prima da Alessandro Rosina, sociologo e demografo dell’Università cattolica. Il quale illustrando il “Rapporto giovani”, un’ampia indagine realizzata dall’istituto Toniolo, spiega come la povertà delle famiglie si sia inasprita negli ultimi anni, passando dal 4,6% del 2010 all’attuale 7,9%: più di due milioni di nuclei familiari. Un dato che colpisce soprattutto, aggiunge, le realtà con tre o più figli. L’ambizione del 90% dei giovani, precisa, è di un lavoro che sia luogo di impegno e mezzo di autorealizzazione; per l’86% uno strumento per costruirsi una vita familiare. La realtà parla invece di una retribuzione insufficiente (46% dei casi) e di un’attività non pienamente coerente con il proprio percorso di studi (46,5%). I giovani hanno però una buona dose di realismo quando affermano che, in un quadro del genere, il 95,7% dei si ritiene “la vera ricchezza del Paese”, e il 67,1% si dice convinto che i giovani “dovrebbero smettere di lamentarsi e darsi maggiormente da fare per prendere in mano il loro futuro”.
Perché i posti di lavoro, in determinati campi, non mancano. Lo sostiene Giuseppe Guzzetti, padrone di casa, presidente della Fondazione Cariplo che ha contribuito con oltre 2 milioni di euro al Fondo famiglia lavoro e che ha ospitato il convegno, moderato da Daniele Bellasio, social media editor de Il Sole 24 Ore. «Ad esempio nel manifatturiero – sostiene -, che è tipico della nostra regione. I posti sono vacanti perché mancano le professionalità. Per questo vogliamo rilanciare gli istituti tecnici e gli istituti professionali. Negli ultimi anni li abbiamo messi un po’ da parte, ora è il momento che le famiglie si convincano del loro valore per i propri figli». A ciò si aggiunge l’altro campo di esercizio della Fondazione: «La cultura che è fattore di coesione e può esserlo di occupazione, anche giovanile».
A Luciano Gualzetti e mons. Luca Bressan, segretario generale e presidente del Fondo, è affidato il compito di guardare al futuro dell’iniziativa a partire dai risultati ottenuti. Che parlano di oltre 20 milioni di euro raccolti in 5 anni e ridistribuiti in diversi modi (sovvenzioni, corsi, microcredito) a 12mila famiglie.Nello specifico, 873 erogazioni sono state finalizzate alla ricerca attiva del lavoro, 675 alla sussistenza, 12 al microcredito. Numeri dietro i quali si celano volti, famiglie, genitori che perdendo il lavoro hanno trovato sollievo nel Fondo. Come un panificatore egiziano, giusto per citare un caso, che una volta licenziato è riuscito a entrare in contatto con una piccola attività familiare in crisi contribuendo a renderla una gastronomia etnica di successo. O come un giovane, che ha chiesto un corso di formazione da spazzacamino. E numeri dietro i quali si celano migliaia di piccoli donatori.
In questo clima di flebile speranza, il realismo delle cifre dice però che «l’Italia da troppo tempo è un paese che non cresce più». Lo spiega Fabio Vaccarono, ad di Google Italia, sostenendo che «le economie digitali contribuiscono tra il 20% e il 25% del valore delle venti economie maggiori del mondo. In Gran Bretagna il 10% della ricchezza proviene dall’economia digitale. In Italia il valore è del 2%». Secondo Vaccarono si tratta di un settore da esplorare, in quanto l’economia digitale è una «piattaforma trasversale su cui tutti settori possono salire e guadagnare». E se «nonostante la crisi siamo i maggiori manufatturieri d’Europa dopo Germania», è necessario puntare su quel fronte coniugato al digitale.
Riparte da questa sollecitazione Maurizio Martina, ministro per le politiche agricole del Governo. «Rileviamo che ultimamente molti giovani sono tornati a lavorare la terra, ma a volte per disperazione o necessità». L’ambizione del ministro è invece «far vivere l’agroalimentare come luogo di sviluppo, non rifugio in mancanza di altri sbocchi lavorativi». Un’ambizione che si scontra con il «grande problema del reddito: lavorare in campo agricolo rende molto meno che in altri paesi europei». L’obiettivo diventa quindi oggi, conferma Martina, «costruire imprese, non gestire una transizione in attesa che arrivi qualcosa dopo. Imprese che permettano di garantire reddito, costruire una famiglia. Expo 2015 può essere occasione per questo cambio di passo».