«La forza della comunicazione del Papa, che vale per tutti noi (giornalista, imprenditore, politico, impiegato, insegnante, operaio, lavoratore…) è “comportati come predichi”». Gianni Riotta è editorialista de La Stampa, volto televisivo della Rai e docente alla Princeton University negli Usa. Sabato prossimo dialogherà con il cardinale Angelo Scola in occasione della festa di san Francesco di Sales su «Comunicazione e misericordia».
Riotta, questo binomio quale funzione svolge nella società di oggi?
Quando uno legge le prime pagine o guarda un telegiornale o un sito la misericordia sembrerebbe una parola proprio fuori moda. Vedi teste tagliate, banche fallite, famiglie spezzate, hai l’impressione di un caos totale. Quando poi vai a guardare invece nella vita delle persone reali, fuori dai media, anche nelle situazioni estreme della quotidianità, ci sono elementi positivi in cui carità, impegno, solidarietà sono molto presenti. Penso anche all’importanza di questa parola misericordia che torna alla ribalta, anche per guardare a quello che c’è, perché altrimenti sprofondiamo nel pessimismo.
Quanto i media possono favorire la conoscenza tra le religioni e quanto invece alimentano il pregiudizio e lo scontro?
Ci sono giornali, siti, televisioni che lavorano attivamente a seminare odio e rancore in Italia e nel mondo. Ci sono colleghi, anche grandi firme, che lavorano per seminare zizzania, a destra, a sinistra, al centro, tra i cristiani, tra i musulmani, tra i buddisti. Quindi contrastare questa ondata di odio non è facile e non bisogna fingere che sia un fungo che spunta così casualmente, c’è una macchina che sta lavorando a far crescere l’odio nel mondo.
Quanto lo stile di papa Francesco sta costringendo la comunicazione a porsi di fronte ai temi che lui propone in maniera così chiara e diretta?
Spessissimo studenti all’università, imprenditori, colleghi mi chiedono quale sia il segreto della comunicazione di Francesco. La cosa divertente è che da tutte le persone che lavorano con il Papa sulla comunicazione sappiamo che non usa un computer. Quindi è un “atecnologico”. Allo stesso tempo la comunicazione del Papa funziona così bene perché si basa sull’esempio. Per cui predica la povertà e va a vivere in una semplice stanza, non va in giro con macchine di lusso, predica la tranquillità e comunica tranquillamente. Allora è inutile che noi giornalisti parliamo di tolleranza e poi siamo intolleranti, diciamo l’onestà e siamo disonesti. I nostri giornali sono pieni di appelli alla pace nel mondo, chiediamo tutti i giorni a palestinesi e israeliani di fare la pace. Poi però guardiamo il livore con il quale ci attacchiamo, la calunnia con la quale ci denigriamo, il fatto che non si ha mai nessuna forma di misericordia, non c’è mai l’attenuante ma sempre odio. Il livore e la condanna pregiudiziale hanno allontanato moltissimo i giornalisti dall’opinione pubblica. Infatti non ci sopportano più.
Anche nei social media c’è livore, violenza verbale, odio…
I social sono una grande contraddizione: sono nello stesso tempo una medicina e una malattia. Una medicina, perché si può avere accesso a tutte le informazioni: mentre prima si aveva solo la versione dall’alto, oggi si possono sentire tutti i punti di vista. Questa è una straordinaria opportunità. Dall’altra parte è una malattia: a San Pietroburgo in Russia agisce quella che noi chiamiamo la «fabbrica dei troll». Ci sono persone pagate da lobby, legate al Cremlino e a Putin, che apposta diffondono la malafede, notizie false. Mi capita spesso a proposito dei new media di citare due passaggi del Vangelo di San Giovanni che sono la luce e il buio di internet. Da una parte dice: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi», che è vero perché su internet si può conoscere la verità ed essa ti rende libero. Questo lo diciamo quando siamo ottimisti. Quando siamo pessimisti, si guardano internet e i new media e pensiamo che «gli uomini preferirono le tenebre alla luce». Gli studi del professor Walter Quattrociocchi dimostrano purtroppo che spesso una notizia falsa on line viaggia più velocemente di una vera».