«La cura al confine. Le relazioni di cura tra incontro e cultura dello scarto» è il tema del convegno nazionale promosso da Medicina e Persona insieme con la Diocesi e in stretta collaborazione con Caritas Ambrosiana, in programma dal 27 al 29 ottobre. Le prime due giornate (sessioni plenarie e parallele) si svolgeranno al Centro pastorale ambrosiano di Seveso; la terza (sessione pubblica a cui tutti possono partecipare) a Milano, a partire dalle 9.30, al Centro di via Sant’Antonio 5, con lezione magistrale del cardinale Angelo Scola.
Una traiettoria di lavoro, sviluppata negli anni da operatori psico-sociali e aperta ai fattori umani della cura nelle diverse professioni sanitarie e nelle molteplici esperienze sul campo, si confronta con la fragilità, la crisi morale, i cambiamenti culturali di una generazione, i bisogni tuttora diffusi nella popolazione per riscoprire il senso e i modi del curare.
C’è oggi una tendenza forte alla ricerca del benessere, che si identifica con quell’attenzione alla propria salute quanto mai diffusa e promossa nella cultura attuale che non di rado si materializza nel culto del corpo in senso igienistico o estetico ed è centrata sul rapporto con se stessi. Il che favorisce atteggiamenti individualistici e ripiegamenti narcisistici (a volte persino riconoscibili in espressioni sintomatiche), alimentando aspettative crescenti quando non impossibili. Il rischio è coltivare una sorta di illusione onnipotente, la continua ricerca di una posizione impossibile, quella incombente aspettativa di un “mondo perfetto” che denota l’attuale «incapacità di fare amicizia con l’imperfezione delle cose umane» (Ratzinger, 1986).
Cultura, confine, corpo, rapporto: parole che aprono a una prospettiva più ampia e a un’ipotesi opposta: che il legame tra una vita buona e la cura stia in una relazione, in una domanda. La cura implica che uno si muova e si rivolga a un altro stabilendo una relazione di cura, che di norma si svolge nel tempo e spesso sconfina tra corpo e mente. Sono coinvolti dei soggetti. Persone che incontrano sofferenza e malattia e si confrontano con la condizione umana sottesa: il timore di non poter guarire, di un’improbabile restitutio ad integrum, tra speranza di guarigione e rifiuto del cambiamento, tra fiducia nella cura e resistenze. Gli operatori nel prendersi/aver cura dell’altro sfidano il rischio di affrontare tutto questo, che comprende lo “scarto” implicito nell’esperienza umana del dolore o del limite inaccettabile e insieme del desiderio di durare per sempre. L’uomo quindi, provocato dalla malattia, si pone il problema del senso e, mentre cerca di ritrovare il benessere, domanda di essere accolto in una relazione di cura. Qui il curante lo incontra e, a sua volta, si domanda come può occuparsi positivamente di quella persona. E anche se può farlo in un ambito di libertà.
Come tener conto di tutta la complessità di motivazioni e condizioni presenti in entrambi i soggetti, curati e curanti, chiamati a condividere nel bisogno il senso? È possibile non lasciare nell’intenzionale e nelle dichiarazioni di principio la ricerca di una posizione critica, adeguata al desiderio di curare, tanto più all’interno di una cultura dominante come l’attuale piena di regole, ma relativista, medicalizzata, ma ambivalente rispetto alla cura? Il pensiero corre ai molti problemi sul tappeto comuni ai vari ambiti della medicina, dall’eccesso di indagini diagnostiche all’estensione delle cure che va dai trattamenti estetici alla grave disabilità, alla demenza, alla cronicità residua dopo la riabilitazione, fino all’evoluzione cronica delle malattie divenuta normalità. Come non scartare chi è nel bisogno, saper assistere, valorizzare le esperienze, incontrare le persone e la famiglia?
Francesco (2015) considera proprio questo «il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà». Infatti, se oggi è necessaria una riflessione non superficiale su cosa vuol dire curare, altrettanto si impone l’esigenza di strumentare le sue possibili modalità attuative nei diversi contesti, età, ambiti di lavoro, resistendo ai rischi di abbandono della clinica. In altre parole, il dono, l’offerta di un «primo passo, non privo di rischio, che costruisce le relazioni personali” (Angelo Scola, 2015) può rappresentare l’inizio sempre rinnovato del percorso della cura, che certo richiede esemplificazioni di metodologie ed esperienze che ne promuovano la continuità e l’efficacia nella pratica.
Obiettivo del Convegno è dunque ridefinire le relazioni di cura e di aiuto all’interno delle diverse pratiche di salute – psico-sociali e non solo – e di focalizzare le caratteristiche che facciano della cura un’azione legittima e richiesta al servizio delle persone e delle relazioni nel contesto della società attuale, offrendo punti di riferimento imperfetti, ma utili a orientare l’intervento degli operatori, dei soggetti sociali, della comunità e delle sue istituzioni.