Dinanzi all’inarrestabile sequenza di morti causati dal terrorismo di matrice jihadista, dalle stragi recentissime di Parigi a quelle – che ci hanno turbano di meno, ma che non per questo sono meno dolorose – di Beirut, del Sinai, fino alla macabra litania quotidiana di eccidi in Medio Oriente, la semplice ricostruzione geopolitica della situazione appare come insopportabilmente fredda. O peggio ancora, figlia di un cinico distacco dalle sofferenze del mondo. Così non è, ovviamente. Ogni analisi non deve mai dimenticarsi che sullo sfondo di ogni dinamica politica e decisione strategica vi sono donne e uomini che pagano il conto più alto.
E pur tuttavia, l’analisi di Isis, del suo radicamento sul territorio e della sua diffusione nelle frange più estreme della militanza jihadista, richiede di andare oltre l’emozione e il sentimento di pietas cristiana. Cosa che ci permette di comprendere come l’equilibrio strategico in Medio Oriente stia lentamente mutando e, sia pure in modo tutt’altro che univoco, non a favore di questa organizzazione terroristica.
Dopo la sua dirompente avanzata nel 2014, che ha permesso a Isis di proclamare un improbabile califfato nei territori fra Iraq e Siria, questo movimento ha dimostrato sia una grande capacità di radicamento nelle zone arabo-sunnite del Levante, sia capacità tattiche militari insospettate per milizie così variegate, sia – infine – una fortissima capacità attrattiva, proprio tramite l’uso mediatico del terrore. Nelle ultime settimane, al contrario, la tenuta sul campo militare di Isis mostra qualche logoramento. Le forze armate irachene (e soprattutto le milizie sciite addestrate dall’Iran) sono riuscite a mettere in sicurezza i territori arabo-sciiti nell’Iraq centro-meridionale; i curdi hanno riconquistato il centro urbano di Sinjar, mentre la stessa Ramadi – perno della presenza jihadista nel paese – è sotto assedio.
La violenza brutale ed estrema del Califfo e dei suoi uomini ha spinto i governi sunniti nell’area – in particolare Turchia e Arabia Saudita – a ridurre la proprie ambiguità nei confronti delle milizie jihadiste, adottando politiche più efficaci di contrasto contro Isis, fattore molto importante per ridurre la libertà di movimento dei suoi militanti da e per il Levante. Mentre anche in Siria il quadro strategico generale si fa più incerto.
Non sorprende quindi che Isis abbia deciso di “sparigliare” le proprie carte, spostando l’attenzione dalla lotta contro il “nemico interno” (sciiti, musulmani moderati, minoranze religiose) finora predominante, per colpire il “nemico esterno” (ossia l’Occidente, finora un obiettivo tutto sommato secondario nella strategia di Isis). E ciò perché un attacco clamoroso contro l’Europa produce effetti a catena. Innanzitutto si ottiene un successo mediatico che è alla base dell’impetuosa ascesa di questo movimento quale premium brand del terrorismo jihadista e che ne rilancia l’immagine presso gli ambienti islamisti radicalizzati. Il che significa nuovi adepti e nuovi volontari. Si allontana poi l’attenzione dal fronte interno e si spera di fiaccare la volontà occidentale nel continuare i bombardamenti della coalizione.
Infine, obiettivo non secondario della strategia jihadista, si creano le premesse per la diffusione di una narrativa islamofobica che favorisce il dilagare di visioni dicotomiche e populiste nei confronti delle comunità islamiche presenti sul nostro territorio. È l’idea della impossibilità di una condivisione degli spazi pubblici europei fra un “noi” astratto e un “loro” stereotipato, che nega una realtà sempre più evidente, ossia quella del “meticciato” di culture e di identità, di cui si parlerà all’evento di Fondazione Oasis in Cattolica. Dentro a una storia che gira a velocità sempre più sostenuta, noi assistiamo confusi a processi di secolarizzazione e a contro-processi di radicalizzazione che creano fratture non solo fra le diverse civiltà, ma soprattutto al loro interno. Isis ne è una dimostrazione evidente, dato che massimizza la polarizzazione fra comunità sciite e comunità sunnite, spostando pericolosamente sul piano identitario una contrapposizione che invece è eminentemente geopolitica, legata alla lotta per l’egemonia regionale fra Arabia Saudita e Iran.