Prima di essere nominato Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Lombardia, Luigi Pagano è stato per 15 anni direttore di San Vittore. Oltre a lavorare con gli agenti di polizia penitenziaria, ha potuto contare anche sulla collaborazione delle Suore della Carità, la congregazione cui apparteneva anche suor Enrichetta Alfieri divenuta superiora nel 1939.
Negli anni dell’occupazione nazista non sempre il rapporto tra suor Enrichetta e il Caporale tedesco, facente funzione di direttore, è stato facile, per ovvi motivi. Qual è stata invece la sua esperienza con le religiose?
Ottima. Ci trovavamo magnificamente, confrontandoci dal punto di vista professionale, anche se non sempre con incontri istituzionalizzati. Le suore erano abbastanza rigide, ma con loro mi trovavo bene; paradossalmente erano molto più rigide di quanto ci si potesse aspettare e gestivano bene la Sezione con tutto il loro apporto umano e spirituale. Con loro eravamo davvero in “mani sicure”: perché sapevano richiamare al rispetto delle regole senza mai trascendere. Non intendevano la “regola” in senso stretto, ma come pedagogia fino all’uscita dal carcere. Poi rispetto al tema della penitenza le religiose avevano qualche parola in più da spendere con i detenuti rispetto a noi laici. Delle suore ricordo anche i biscottini e i “generi di conforto” che ci preparavano…
Le Suore della Carità ancora oggi assistono le detenute di San Vittore. Di che cosa si occupano?
Fino al 1992-93, prima delle agenti di polizia penitenziaria c’erano le vigilatrici, ma chi governava la Sezione femminile erano le suore. Quando sono arrivato come direttore c’era suor Giovanna come Superiora della comunità religiosa. A certi livelli avevano un polso molto più saldo di quanto non l’avessimo noi… forse la fede fa fare anche questo. Poi con la riforma del Corpo di Polizia penitenziaria si è stabilita l’estromissione delle suore dall’attività di vigilanza. E così a San Vittore le suore, oltre a continuare nel loro compito spirituale, sono state “recuperate” per l’assistenza infermieristica al Centro clinico e in quella che all’epoca era la sala operatoria.
Suor Enrichetta quando era superiora non si è occupata solo delle donne al Reparto femminile, ma anche delle ex detenute che avevano il problema della casa e del lavoro…
In quegli anni si poteva pensare che un religioso intendesse la rieducazione di una persona solo dal punto di vista interiore, spirituale, di redenzione. Anche perché non c’era ancora stata la Costituzione e in particolare l’articolo 27 e l’Ordinamento penitenziario che declinano la rieducazione in termini di reinserimento sociale. Ma suor Enrichetta non si è accontentata del cambiamento interiore e ha avuto un’intuizione profetica guardando anche a quella che oggi chiameremmo “rete” per il reinserimento sociale. Lei ha saputo vedere oltre, superando la retorica. I santi o i beati sono quelli che si sporcano le mani, che si impegnano direttamente, come ha dimostrato suor Enrichetta.