Il 26 giugno 2011, dunque, per la nostra Diocesi sarà festa grande: tre suoi figli saranno insieme proclamati “beati”. Una suora, un parroco, un missionario. I loro Processi canonici hanno seguito tempi diversi, ma si sono incontrati alla fine e ne è scaturito questo singolare avvenimento: non è usuale che in una diocesi tre persone vengano beatificate insieme. Questo attendersi forse ha un significato: esprime la profonda sintonia tra loro tre, che riassumo in quattro punti: fortezza, carità, concretezza, passione. Tutti e tre vissero in epoche certamente diverse, ma segnate tutte da tempi che amiamo definire “difficili”: durante i disordini dell’Ottocento don Serafino; nella tragedia delle due guerre mondiali suor Enrichetta, che fu arrestata e rischiò la deportazione in Germania per gli aiuti che prestava ai prigionieri; mentre Padre Vismara dovette “fondare” la comunità cattolica nell’immenso oceano buddista del Myanmar, che giunse nel 1966 ad espellere tutti i missionari. I prossimi tre beati non si scoraggiarono, non si lamentarono, vissero senza paura secondo il Vangelo: per questo parlo di “fortezza”. Tutti e tre vissero “consumandosi” – nel senso più bello e positivo del termine – per coloro che la Provvidenza aveva loro affidato, aveva fatto loro incontrare. Lo si disse di don Serafino, che si privava del povero cibo, per darlo ai poveri che bussavano alla sua porta e non se ne tornavano mai a mani vuote. Suor Enrichetta fu non a caso chiamata «Mamma» e «Angelo» di San Vittore, perché vi portò l’amore di una mamma e la dolcezza di un angelo, una fama che percorre l’Italia: le sue immagini – ad esempio – sono anche nel carcere romano di Rebibbia. Padre Clemente visse per tutta la vita in mezzo ai «suoi figli» come li chiamava: migliaia e migliaia di orfani trovarono sempre accoglienza nella sua missione e inorridiva, quando lo si invitava a limitare il loro numero, perché per lui la «carità non conosce la parola “basta”». Parlo di concretezza, ma forse dovrei scrivere “quotidianità”. Tutti e tre, infatti, vissero questo loro “zelo” senza mettersi in mostra, semplicemente convinti che era il loro dovere, quello che dovevano e volevano fare tutti i giorni e così fecero. Essi – come diceva padre Vismara – vollero «fiorire nel luogo in cui la Provvidenza li aveva posti», nella fedeltà quotidiana alla loro vita, al loro dovere, quella fedeltà al quotidiano che Pio XI, maestro certamente degli ultimi due, raccomandava come «segno di santità». Certo, c’è un “segreto” per vivere così: solo se si è innamorati di Dio in maniera totale si può donare con totalità il proprio cuore e la propria vita. Solo se si dice al Signore Gesù: «Tu sei tutto per me», si può essere tutto per gli altri. Così fu per i prossimi Beati.
Ciò che li differenzia
Certamente – è questo è l’altro splendido aspetto – essi furono diversi sia per carattere, sia per formazione, sia per ambiente di santificazione. Non credo ci voglia molto ad intuirlo: don Serafino morì nel 1822! E l’ambiente del carcere è così diverso, così chiuso e soffocante rispetto allo spazio immenso della foresta del Myanmar. Padre Clemente amava quella terra anche per la bellezza dei luoghi e non solo per la semplicità delle persone; suor Enrichetta amò rimanere per 30 anni nel chiuso di un carcere, condividendo con le detenute le celle, perché non altro era l’appartamento delle suore se non alcune celle messe a loro disposizione. Eppure ambedue sorrisero sempre: è un dato che emerge costantemente nelle testimonianze. D’altra parte, come diceva Bernanos, la gioia è il grande segreto del cristianesimo.
Ciò che ci lasciano
Così, in conclusione, proprio la diversità delle tre persone che diventeranno beate il 26 giugno mi conferma nel contemplare l’infinita fantasia di Dio, che sa valorizzare ogni cosa, ogni persona, ogni diversità. Dio non ama le fotocopie, esulta per le differenze, nelle quali si esprime la sua infinita divina ricchezza d’amore. Questa triplice diversità, poi, mi ricorda le parole del beato Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica Novo millennio inuente, ove parla della santità come «misura alta» del cristiano autentico: la santità non è di pochi, appartiene a tutti, è vocazione di tutti, è possibile a tutti, chiunque noi siamo. Forse è per questo che i nostri tre beati hanno scelto di “arrivare insieme”: per ricordarci che possiamo giungere anche noi alla loro meta, perché – parafrasando Tagore – «ogni beato che nasce è il segno che Dio non è stanco dell’uomo». Dio non altro desidera che abbracciarci, per condividere con noi la Sua santità.