Bruxelles è sotto assedio dopo gli attentati all’aeroporto e alla metropolitana. Città disorientata, blindata e quindi deserta. Bruxelles il 22 marzo 2016, come Parigi nel novembre scorso (Bataclan), come la stessa Parigi nel gennaio 2015 (Charlie Hebdo) e, prima ancora, sempre Bruxelles (strage alla sinagoga, 2014), Londra (2005), Madrid (2004)… Quando ancora non sono chiari i contorni della tragedia causata dalle bombe a Zaventem e a Maelbeek – luoghi frequentati regolarmente da chi vive o lavora nella capitale belga -, si invoca chiarezza sull’identità dei terroristi e giustamente si pretende fermezza di fronte alla violenza cieca e barbara. Mentre qualche altra voce, probabilmente interessata a raccogliere consensi elettorali a basso prezzo, chiama l’Occidente alla “guerra santa”, intima la chiusura di ogni frontiera e la costruzione di una anacronistica “fortezza Europa”.
È esattamente ciò che vuole il terrorismo, sotto qualunque bandiera operi: diffondere paura, seminare sospetto, instillare rancore. Perché, da che mondo è mondo, odio chiama odio, violenza chiama violenza. È la logica dell’Isis che, mentre perde terreno sui campi di battaglia in Siria e in Libia, sposta l’attenzione sui check-in di un aeroporto europeo o su una stazione del metro affollata di pendolari. Appare chiaro a tutti che occorre gestire il rischio e contrastare il terrorismo con forze di polizia, magistratura e, soprattutto, intelligence: lo promette in queste ore il premier belga Charles Michel, così come ha fatto qualche mese fa François Hollande. Ma oggi come ieri si comprende che dinanzi a una minaccia comune si fa fronte solo con una risposta comune: e per questo bisogna intraprendere sul serio la strada di una integrazione europea che abbia risvolti concreti anche nel settore della sicurezza, per proteggere – con una strategia concertata dai 28 Stati membri – i 500 milioni di cittadini con passaporto Ue.
D’altro canto gli oltre 30 morti e i numerosissimi feriti di Bruxelles richiamano almeno altri due punti fermi. Il primo: questo è un attacco simbolico all’Europa, anzi all’idea stessa di Europa unita. A un progetto che ha preso le forme 70 anni fa, dopo l’abisso della seconda guerra mondiale, per portare un’inedita pace, assieme a libertà, democrazia e benessere al continente. Chi immagina – come i terroristi, come l’Isis o come talune potenze in odore di regime antidemocratico – un mondo in preda alla “terza guerra mondiale a pezzi”, in cui prevalga la legge del più forte, denunciata con forza da papa Francesco, ebbene costui vede nell’Ue un pericoloso emblema di pace e di stabilità. L’Unione europea ha certamente tanti difetti e limiti, eppure resta un originalissimo, e per certi aspetti riuscito, percorso di convivenza, un presidio dello stato di diritto riconosciuto in tutto il mondo, dove i conflitti vengono regolati nel solco della politica, della diplomazia e della legge, non già dai mitra, dai carri armati o dai missili. Persino nelle sue colpevoli incertezze sul fronte della crisi economica e dell’emergenza-profughi, l’Europa apre spiragli di futuro, tenta di individuare strade nuove, a dispetto di tutti gli egoismi statali e dei gretti nazionalismi che attraversano il Vecchio continente e il mondo intero.
Ma c’è anche un secondo elemento da considerare, altrettanto rilevante. Se l’obiettivo degli assassini di Bruxelles è quello di mettere l’Occidente contro l’Oriente, una società contro l’altra, una fede contro l’altra (con un malinteso senso della religione, sia essa islamica o cristiana), allora bisogna intraprendere con lucidità, e per “settanta volte sette”, la via del dialogo, del confronto aperto, coltivando valori condivisi che vanno dalla stessa libertà ai diritti fondamentali, dalla democrazia partecipativa alla costruzione di ponti tra popoli e Stati. I nuovi muri che vengono eretti all’interno dell’Europa (compresa la sospensione degli accordi di Schengen) procedono esattamente nella linea del conflitto e del mancato rispetto della dignità delle persone, specie di quelle più fragili, come profughi e migranti. Così come ci sono barriere invalicabili dentro le città europee, con fasce sociali emarginate e non integrate o con periferie abbandonate a se stesse. I ponti sono invece rappresentati da persone e da culture che si incontrano pur nel rispetto della differente identità.
Quando ancora echeggiano le tristi notizie da Bruxelles, papa Francesco e gli organismi europei della Chiesa cattolica (Ccee e Comece) chiedono pace, rispetto reciproco, pratiche di mutuo sostegno, così come fanno le altre confessioni cristiane e le grandi fedi religiose presenti sul continente. Alla ferma risposta delle autorità si deve accostare questo faticoso, testardo e coraggioso stile di convivenza che scommette sull’umanesimo. Altrimenti c’è il rischio che Bruxelles non sia l’ultima tappa di chi vuole distruggere l’Europa e ogni possibilità di pace globale.