Non capita spesso di sentir dire nei Vangeli che Gesù si sia irritato. Il brano di Mc 10,14-29, che ci sta accompagnando in questo Anno della fede, è uno dei pochi che lo fa.
Sorprende sentir dire da Gesù una frase come questa: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?». La reazione di Gesù segue la frase che il padre del ragazzo epilettico pronuncia: «Maestro, ho portato da te mio figlio che ha uno spirito muto. Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». È l’ultima parte che fa scattare la reazione di Gesù: l’aver “detto” questo ai discepoli.
Il verbo ha un che di freddo. Allude al fatto che quest’uomo abbia come preteso da loro che liberassero suo figlio dalla sua malattia, pensando che questa fosse un’operazione quasi chirurgica di cui dovevano conoscere bene il procedimento, essendo del giro di Gesù. È vero che in precedenza i discepoli avevano scacciato i demoni (Mc 6,7-12), ma lo avevano fatto dietro esplicita indicazione di Gesù e partecipando del suo potere a loro espressamente donato.
Ciò che fa esasperare Gesù è il modo in cui si guarda al “miracolo”, confondendolo con qualcosa di magico e ritenendolo dovuto. In questa prima richiesta del padre ai discepoli non c’è umiltà, e neppure un filo di commozione. Il contesto è quasi burocratico. I discepoli sono come messi alle strette. Il testo non ci dice come essi hanno reagito: se hanno interpretato la richiesta come l’occasione per dimostrare il loro potere (il che sarebbe biasimevole) rimanendo poi frustrati, oppure tentando di fare il possibile con timore e imbarazzo. In ogni caso l’esito fu per loro umiliante. Anche questo contribuisce probabilmente a giustificare l’indignazione di Gesù.
Come è diverso, invece, il modo di parlare di questo stesso padre quando per la seconda volta si rivolge al maestro che ha reagito duramente. La descrizione della situazione di suo figlio e della sua è decisamente accorata e culmina in una richiesta che suona così: «Se tu puoi qualche cosa, abbi pietà di noi e aiutaci!». Dunque è il tono che fa la differenza, non la richiesta. Il prodigio ci sarà, ma sarà evidente che si tratta dell’opera di Dio e non di magia di uomini.
La fede c’è quando entra in gioco ciò che l’uomo ha di più vero nel profondo di se stesso, quando egli lascia emergere con sincerità le sue attese più intime con confidenza e umiltà, sapendo che esse rimandano a un mistero di bene che lo sovrasta. La forma autentica del credere è l’umile supplica: essa sicuramente incontrerà il grande cuore di Dio.
da Avvenire,27/10/12