Fu istituita in Italia nel 1989 e quest’anno è giunta alla ventesima edizione. È la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei e si celebra il 17 gennaio. Papa Francesco ha scelto proprio questo giorno per andare alla Sinagoga di Roma. Terzo Papa, dopo Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. È una data cara al popolo italiano, ebreo e cattolico. Sono 20 anni che il 17 gennaio nel nostro Paese si organizzano tavole rotonde, momenti di confronto sui grandi temi che interpellano l’umanità, incontri di approfondimento biblico. Sono 20 anni che ebrei e cattolici in Italia si incontrano nelle parrocchie e sale di comunità con il desiderio di conoscersi meglio. Dal 2005, la Cei e l’Assemblea dei Rabbini d’Italia hanno deciso di comune accordo di dedicare la Giornata anno per anno alla riflessione su uno dei Dieci Comandamenti. È una storia silenziosa di dialogo e amicizia.
Monsignor Bruno Forte, presidente della Commissione Cei per il dialogo e il rav Giuseppe Momigliano, presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, in un messaggio ringraziano «di cuore tutti coloro che in questi anni si sono resi disponibili a offrirci spunti di riflessione». Non si tratta semplicemente di un tratto di strada percorso insieme, ma di «una tappa» perché «il cammino in sé ci offre ancora molte possibilità di incontro, di scambio, di crescita comune».
Monsignor Forte, il Papa ha scelto di andare nella sinagoga di Roma il 17 gennaio. Che significato ha questa scelta?
La data del 17 gennaio fu scelta perché precedeva immediatamente quella della settimana di preghiere per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio) e in tal modo sottolineava che la fede d’Israele è la radice santa del cristianesimo e dell’unità che Cristo vuole fra i suoi discepoli. La scelta di quella data per la visita di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma evidenzia l’importanza che Egli attribuisce all’amicizia ebraico-cristiana e al dialogo in cui essa si esprime.
Nel messaggio di presentazione della Giornata, lei e il Rav Giuseppe Momigliano ribadite «la necessità di proseguire il cammino di dialogo che vent’anni fa abbiamo voluto iniziare». Cosa intendete dire? E come proseguire nella strada di amicizia?
Il dialogo di questi anni è stato condotto a partire dal Decalogo e ha avuto frutti di grazia soprattutto nella crescita della conoscenza reciproca e della fiducia. Si tratta perciò di un cammino da portare avanti nella comune convinzione che esso rappresenta un autentico dono e arricchisce entrambi gli interlocutori in accordo con la volontà del Signore.
Il Rav Di Segni ha chiesto di non utilizzare più l’espressione «fratelli maggiori» perché induce a pensare a un rapporto ebrei/cattolici di “sostituzione”. Lei che è un teologo, cosa pensa?
Ogni idea di sostituzione che veda la Chiesa semplicemente prendere il posto di Israele nel disegno di Dio va rifiutata. Secondo lo stesso Apostolo Paolo la reintegrazione d’Israele e della Chiesa in un unico popolo avverrà solo alla fine, quando il Figlio dell’uomo tornerà: fino ad allora – e fatti salvi singoli cammini di conversione a Cristo sempre avvenuti nella storia e sempre possibili -, i due popoli dovranno avanzare secondo la chiamata ricevuta da Dio rispettivamente e dovranno crescere nel dialogo fra loro e nel servizio dell’Eterno.
Quali auspici? Quali speranze apre papa Francesco nel dialogo con l’ebraismo? E dov’è il suo “punto di forza”?
Gli auspici sono quelli di una amicizia e di una collaborazione ebraico-cristiana sempre più stretta e autentica, di cui proprio in questi giorni ho fatto esperienza tenendo la annual lecture all’Università Ebraica di Gerusalemme su invito del dipartimento di studi sul cristianesimo che è molto attivo e frequentato dagli studenti. Il punto di forza di papa Francesco è la ricchissima esperienza che egli ha personalmente del dialogo fraterno con il mondo ebraico sin dai tempi di Buenos Aires e che gli fornisce una singolare capacità di incontro con il popolo da cui è venuto Gesù, che era ebreo e lo è per sempre.