Come nasce una vocazione? E quanto contano gli incontri con i testimoni reali e vivi del Vangelo, in questo cammino? Se c’è un filo rosso – oltre, naturalmente, la fede – che annoda storie diverse, personalità ed età distanti, uomini e donne che hanno scelto di dire per sempre il proprio «sì», è proprio l’incontro con qualcuno, con qualcosa che convince e cambia il cuore. Ne è certo il Priore del Convento Domenicano di Santa Maria delle Grazie a Milano, padre Guido Bendinelli, lo ribadisce suor Antonia Dalmas, del Pime, lo dicono due «Piccole Apostole della Carità», l’Istituto secolare fondato dal beato don Luigi Monza.
«L’incontro con la consacrazione secolare è cresciuto osservando chi mi ha testimoniato il servizio agli ultimi, anzitutto, nella propria sua vita», spiega Fulvia Padoan, appunto Piccola Apostola, cui fa eco la consorella, Francesca Fontana, da 10 anni consacrata: «Entrare in questo Istituto è stato per me il coronamento di un lungo cammino – ricorda -. Ha voluto dire mettersi a servizio della Chiesa, prima ancora che dei poveri e dei malati, guardando a loro come fossero Gesù che ci chiama e ci chiede aiuto. Il non avere come obiettivo una singola categoria della povertà umana, mi ha permesso di essere aperta alle necessità di chiunque mi venisse incontro». Il cardinale Angelo Scola dice spesso che la testimonianza vera, autentica, cristiana non è solo il buon esempio… «È vero – riflette ancora Francesca -. Penso alla mia vocazione che è maturata proprio all’interno del servizio prestato presso “La Nostra Famiglia”, associazione che si occupa, in particolare, di bambini disabili. Ricordo di aver pensato: “Qui può esserci la vera gioia”. E, in effetti, è ciò che ho trovato».
Più anziano di circa 25 anni, ma ugualmente vivace nel richiamare le radici della propria vocazione, il priore padre Guido Bendinelli, emiliano, da quasi 40 anni tra i Domenicani: «Sin da piccolo ho avuto il sentore della vicinanza di Dio – racconta -, che si è poi concretamente realizzata da giovane adulto. Ho dovuto attendere di compiere gli studi, il liceo, l’università per capire quanto Dio mi chiedeva». Che cosa le ha domandato? «Avendo vissuto in maniera abbastanza intensa gli anni della giovinezza nell’Azione cattolica – risponde padre Guido -, ho capito quanto vi fosse bisogno di un approfondimento della fede anche sul piano teologico-culturale. Tanti scontri vissuti nella Chiesa che avevo frequentato allora, si riconducevano proprio a questa scarsa chiarezza, anche dal punto di vista della comprensione della fede. E quindi, ho abbracciato un Ordine che è dedito alla predicazione e allo studio come pratica ascetica e penitenziale». Padre Guido cosa direbbe a un giovane che volesse intraprendere questa strada? «Suggerirei di coltivare l’amore per il Signore, per l’annuncio del Regno, ma al tempo stesso, di essere consapevole che bisogna fare questo all’interno di una vita comunitaria. Basti pensare al modo di vita della Chiesa delle origini con il modello di vita apostolica, ripreso da san Domenico: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede avevano un cuor solo e un’anima sola”».
A suor Antonia chiediamo perché ha scelto di essere Missionaria dell’Immacolata, ramo femminile del Pime. «Fin da ragazza – ci dice -, volevo qualcosa di più per la mia vita, qualcosa che potesse realizzarla, pensando agli altri, perché appunto all’età di 16-17 anni ho iniziato ad aprirmi al mondo dei più poveri, degli anziani, dei bambini. La presenza nella mia parrocchia di alcuni missionari che raccontavano le loro esperienze, ha fatto sì che la ricerca di senso e la voglia di farsi prossimo, trovassero uno sbocco naturale nel cammino vocazionale». E da lì 16 anni in missione… «Sì – conferma suor Antonia -, con i bambini di strada, soprattutto in una favela della grande San Paolo, con un lavoro pastorale rivolto alla promozione della donna nelle zone più povere, più escluse, dove non ci sono prospettive, impegnandomi con loro in una prima coscientizzazione della dignità femminile». Mai avuto paure particolari o pensato «chi me l’ha fatto fare»? «No – ribatte decisa suor Antonia -. La paura è, semmai, quella di sbagliare eventualmente con la gente, di non sapere rispondere adeguatamente alle richieste, ma non la paura di aver sbagliato, io, la mia strada».