La funesta segnaletica dei lager nazisti marchiava con una stella gialla a sei punte i prigionieri ebrei. Un triangolo verde identificava i delinquenti comuni, così come un triangolo rosa bollava gli omosessuali, uno marrone i rom e i sinti, quello viola i Testimoni di Geova. A don Paolo Liggeri, deportato nei campi di concentramento tedeschi nel 1944, fu assegnato il triangolo rosso: quello riservato ai detenuti politici, ai nemici del Reich, agli oppositori del nazismo. Perché era un ribelle, il prete milanese. Un ribelle per amore.
Non è una storia unica, quella di don Liggeri (medaglia d’oro del Comune di Milano), e anzi condivisa da tanti sacerdoti e religiosi della Chiesa ambrosiana, che nella bufera degli ultimi tempi del regime fascista e durante l’occupazione nazista si prodigarono per salvare profughi e perseguitati, correndo rischi enormi, anche fino al martirio. Ma, proprio per questo, quella vissuta dal fondatore del benemerito istituto La casa è una vicenda che merita di essere ricordata, e particolarmente in questo Giorno della memoria che commemora le vittime del nazismo e dell’Olocausto.
Paolo Liggeri, classe 1911, siciliano di nascita, era stato ordinato sacerdote a Milano nella Compagnia di San Paolo. Assistente all’Opera Cardinal Ferrari, in seguito ai terribili bombardamenti aerei dell’estate 1943 diede vita a un centro di soccorso per accogliere gli sfollati e fornire loro assistenza medica e finanziaria, allestendo anche una mensa che ogni giorno offriva gratuitamente un pasto caldo a centinaia di sinistrati.
Dopo l’Armistizio, con la deportazione nei lager tedeschi di oltre cinquecentomila soldati italiani, don Liggeri – coadiuvato da un gruppo di volontari e in collegamento con Radio Vaticana – organizzò un centro clandestino di informazioni, grazie al quale riusciva a raccogliere messaggi dei nostri militari internati, comunicare con chi era rimasto isolato dall’avanzare del fronte, fare da “ponte” per i vari gruppi della resistenza. Una “meravigliosa opera di carità cristiana”, come fu definita, quando avere notizie dei propri cari dispersi poteva essere più prezioso dello stesso pane quotidiano…
Ma, soprattutto, nel pensionato di via Mercalli don Paolo dava rifugio e protezione a ebrei e a chiunque era perseguitato per motivi razziali e politici, come anche a prigionieri alleati in fuga e a giovani renitenti alla leva della Repubblica di Salò. Per tutti costoro realizzava falsi certificati di copertura, organizzandone, appena possibile, l’espatrio verso la Svizzera e in luoghi sicuri.
Un’attività, tuttavia, che non sfuggì a lungo all’attenzione dell’Ufficio politico investigativo fascista, forse anche a causa di delazioni. Il 24 marzo 1944, mentre si accingeva a celebrare la messa, il sacerdote paolino venne arrestato: nella sua casa le SS trovarono anche 11 ebrei, che furono subito deportati in Germania, da dove non fecero più ritorno.
Don Liggeri dapprima fu condotto nel carcere di San Vittore, dove venne tenuto in isolamento per molti giorni e sottoposto ad estenuanti interrogatori. «Il maresciallo Koch delle SS che mi interrogava – ci raccontò lo stesso sacerdote poco prima della sua scomparsa (avvenuta nel settembre del 1996) – trovava incredibile che una persona istruita come si degnava di considerarmi, potesse trovarsi in contrasto con i sublimi ideali del nazismo, se non per questione di soldi…». Ma la resistenza di don Paolo, come di tanti cattolici in quei frangenti, aveva proprio una radice cristiana e una profonda motivazione ideale: una ribellione, la loro, che fu soprattutto morale.
Nonostante l’intervento del cardinal Schuster, dall’estate del 1944 per il prete della Cardinal Ferrari ebbe inizio un vero calvario attraverso i lager nazisti, dai campi italiani di Fossoli e Bolzano a quelli tedeschi di Mauthausen, Gusen e Dachau. «Qui l’uomo doveva essere distrutto come persona – ha raccontato don Liggeri in quello splendidio diario della memoria che è Il triangolo rosso -, diventare un essere vivente che di umano aveva soltanto le sembianze e che doveva a poco a poco essere ridotto a un bruto o una cosa…».
In questo inferno, don Paolo riuscì comunque a tenere viva la fede e la speranza fra i prigionieri, nonostante ogni forma di assistenza religiosa fosse severamente proibita. Confidando egli stesso in Dio, sempre: anche quando le sofferenze si facevano insopportabili, anche quando la fame mordeva la carne, anche quando la sua esecuzione era già stata annunciata… «Le SS avrebbero potuto anche trasformare tutta l’Europa in un immenso e pauroso campo di sterminio – ha lasciato scritto don Liggeri -: ma lo spirito che abbiamo visto nei deportati non l’ha potuto né l’avrebbe potuto distruggere nessuno».
Tornato a casa nel maggio del 1945, don Paolo Liggeri continuò per tutta la vita la sua opera di carità, verso le famiglie e i più deboli.