«L’intento di dedicare un anno al cardinale Giovanni Colombo – a 110 anni dalla nascita, 20 dalla morte e 50 dal suo ingresso a Milano come Arcivescovo – è stato quello di illustrare la poliedrica ricchezza spirituale di una delle più alte figure della Chiesa milanese del secolo scorso, come docente, educatore e Pastore».
Monsignor Inos Biffi, studioso e docente di Teologia, antico allievo e amico personale del Cardinale, delinea così il significato di fondo dell’Anno Colombiano che si concluderà domenica prossima. E aggiunge: «Egli fu docente mirabile di letteratura italiana nei Seminari e all’Università Cattolica, dove godeva di una grandissima stima da parte di padre Gemelli e dove trovò il suo maestro, il poeta Giulio Salvatori, che lasciò in lui una traccia incancellabile. Colombo aveva il dono e il culto della parola, come forma limpida e luminosa, con cui esprimeva la realtà facendone emergere l’interiore bellezza.
In questo Anno Colombiano, infatti, si sono ripercorse anche le peculiarità del Cardinale come letterato e teologo…
Sì. Vorrei ricordare che, per la geniale interpretazione delle figure letterarie nelle quali ricercava la chiara presenza, la tragica assenza o il segreto desiderio di Gesù Cristo, si è parlato di un suo «cristocentrismo estetico». Fu suo anche un «cristocentrismo spirituale»; al riguardo, egli fu pioniere e pose il carattere scientifico proprio della teologia spirituale.
L’Anno si concluderà proprio nel giorno esatto del cinquantesimo anniversario del suo ingresso in diocesi. Come avvenne la destinazione alla Cattedra di Ambrogio?
La decisione di destinarlo a Milano avvenne per espressa volontà di Paolo VI, al quale succedeva e che lo stimava. Questa scelta lo turbò moltissimo ed egli fece di tutto per declinarla. Il 14 agosto 1963, quando fu resa pubblica la nomina, disse: «A tanto non si era mai levato neppure il più svagato dei miei pensieri». Conversando con i seminaristi, aggiungeva che, ogni mattina, si ritrovava sul tavolo il biglietto di nomina, come Sant’Ambrogio che, pur avendo cercato durante la notte di fuggire da Milano, dopo lungo vagare, nuovamente il mattino si ritrovava in città. Il suo non fu un episcopato facile, ma – come ebbe a scrivere monsignor Guzzetti – «si tenne fermo come una colonna, anche nei giorni turbinosi del ’68, alla difesa dei valori che più gli stavano a cuore: la fedeltà alla dottrina ricevuta, la vitalità del Seminario, la vivezza dell’Azione Cattolica, la solidità delle parrocchie, l’impegno della Parola». Non a caso, infatti, c’è tutto un suo ampio e luminoso magistero conciliare, recentemente raccolto nel volume «Giovanni Colombo. Il Concilio Vaticano II. Discorsi e scritti». Si può in sintesi affermare che egli applicò il Concilio con intelligenza e fedeltà, con provvide scelte operative, senza condividere fervori superficiali e discutibili esegesi.
Oggi è già possibile un giudizio d’insieme?
Penso che la figura di Giovanni Colombo debba ancora essere studiata a lungo e con rigore, di là di emotività e pregiudizi. È fuori dubbio l’eccezionalità della sua statura mentale e spirituale. Credo, comunque, che fondatamente lo si possa annoverare tra i grandi arcivescovi della Chiesa ambrosiana, alla cui sede giungeva quasi sessantunenne, ricco di esperienza spirituale e di profonda conoscenza della sua diocesi, alla quale si era totalmente dedicato. Non si può certo dire che il suo governo sia stato in tutto ineccepibile, come del resto non avevano mancato di suscitare critiche quelli di Ferrari, Tosi e Schuster. Ma alcune sue virtù rimangono: l’austerità di vita; la dedizione tenace nell’assolvimento dei doveri; il distacco nei confronti del potere politico; la diffidenza verso i consensi dei mass media, e una grande pietà.