Nel 1996, quando alcuni immigrati occuparono la chiesa di San Bernardino alle Ossa, la situazione era molto grave. Ricordo la tensione che si respirava. Ma ricordo ancora meglio la determinazione del cardinale Martini. Pur stigmatizzando il metodo della protesta, voleva che tutto si risolvesse con la mediazione, senza arrivare allo scontro. Tra le tantissime lezioni che mi ha lasciato, questa è una di quelle che oggi, a pochi giorni dal 90° anniversario della sua nascita, mi suona più forte e, soprattutto, più attuale. È l’importanza del dialogo che nasce dall’ascolto, dalla stima e dalla meditazione della Parola. E me l’ha insegnata anche in tanti altri contesti.
Ricordo la partecipazione del Cardinale alle veglie dei lavoratori, come quella alla Franco Tosi di Legnano. In quelle occasioni, non aveva paura di parlare chiaro, denunciando «l’esasperazione della logica del profitto». Al tempo stesso, però, cercava sempre soluzioni condivise e non ideologiche, attente dai bisogni delle persone, frutto di una mediazione ragionata e profonda. E non sto parlando di sottovalutazioni o negazioni, ma di percorsi che, promuovendo conoscenza e riconciliazione, costruiscono coesione sociale. Come quei progetti di mediazione penale che, nei suoi anni, hanno coinvolto ex terroristi e detenuti. Quanto ci sarebbe bisogno anche ora di mediare, di ascoltare le vittime e di impegnarsi per stabilire relazioni autentiche, anche di perdono!
Al contrario, sembrano prevalere la chiusura e l’egoismo, sul quale il Cardinale si interrogava già nel 1992. «Siamo o stiamo diventando un continente di egoisti?», si chiedeva l’allora Arcivescovo. E allo stesso modo ce lo possiamo chiedere noi oggi, ben sapendo che il rischio c’è ed è forte. È urgente cambiare direzione, con quella capacità di sognare ad alta voce che Martini ha trasmesso ai milanesi, grazie al discernimento e alla centralità della Parola. Non solo. Serve anche un’altra delle sue più feconde intuizioni: intrecciare azione e riflessione, in «un sussulto di intelligenza e carità».
Quando nel 2004 venne a inaugurare la Casa della carità da lui stesso voluta, ci invitò a unire carità e cultura, per far sì che l’aiuto alle persone in difficoltà «non sia solo la monetina che ci sgrava la coscienza, ma sia una città che si lascia interrogare e rinnovare dalle sofferenze di oggi e vuole rispondervi in maniera eccellente». Parole chiare e illuminanti, rese ancora più credibili dalla figura di Martini, affermato accademico che, nel suo periodo romano, conservava sempre del tempo per il volontariato, soprattutto con le persone con disabilità.
Come nel personale così nel pubblico, il Cardinale ha avvicinato e unito mondi diversi, apparentemente distanti e inarrivabili. E ne è stato capace perché ha sempre dato alle relazioni una fortissima attenzione, figlia del continuo studio delle Scritture. La rivelano le risposte che l’Arcivescovo scriveva di suo pugno alle tante lettere private che riceveva e che, lo spero proprio, arricchiranno nei prossimi giorni gli archivi della Fondazione a lui dedicata.
Ma lo testimoniano anche molti passaggi dei suoi discorsi. Quando individua nella «mancanza di relazionalità» il denominatore comune di vecchie e nuove povertà. Quando invita a «operare affinché accoglienza, diversità, autonomia, moralità e poi rispetto delle differenze, fraternità, solidarietà, vengano tradotti nella vita quotidiana». O, ancora, quando esorta a non sottovalutare le attenzioni nei confronti di chi ci sta accanto. Perché, a volte, per cambiare il mondo bisogna «cominciare con realismo dai rapporti brevi».