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Intervista

Bonomi: «Il futuro è meticcio.
Se lo si nega, i confini diventano muri»

Il sociologo, direttore del Consorzio Aaster e membro del Comitato scientifico dei «Dialoghi»: «La paura del migrante nasce nei luoghi di socialità, quando viene meno l’essere in comune e cresce una comunità del rancore»

di Pino NARDI

20 Maggio 2016
Al Centro Congressi della Fondazione Cariplo si è tenuto, alla vigilia della XXX Giornata della solidarietà il convegno Chiesa, crisi, solidarietà. Due anni di Fondo Famiglia Lavoro

«Il tema che ci interroga è oggi quello della paura che rischia di trasformare i confini in muri e l’essere in comune in comunità rinserrate, come sembrano indicarci gli atteggiamenti dei giovani raccolti dall’Istituto Toniolo. Giovani ai quali questo salto d’epoca va consegnato come destino». Aldo Bonomi, sociologo, direttore del Consorzio Aaster, è membro del Comitato scientifico dei «Dialoghi di vita buona». Lunedì 23 maggio al Piccolo Teatro introdurrà la serata dedicata a «Confini e migranti: paure e soluzioni».

Al centro dei Dialoghi ancora la questione migranti. Perché questa scelta?
La riflessione sul “salto d’epoca” nel Comitato scientifico ha scelto di riproporre il tema perturbante e interrogante delle migrazioni, ponendo al centro le figure dello «straniero», del «profugo», del «migrante economico», in quanto persone, in rapporto ai temi dei Confini e dell’essere in comune.

Chi fugge da guerre e fame cercando una via di salvezza in Europa suscita sempre più paura. Quando è nato e come si è diffuso questo sentimento?
Nel 1991 fu organizzata la prima e unica Conferenza nazionale sull’immigrazione, dalla quale scaturì la prima legge che riconosceva e regolava i flussi dei migranti. A quell’epoca il clima sociale, da Como a Trapani, era predisposto all’accoglienza. In quello stesso anno sbarcarono in pochi giorni a Bari 27 mila albanesi, un salto di confine di massa che produsse la scintilla della sindrome da invasione che incendiò la politica nazionale. Negli anni seguenti si verificarono diversi tentativi di regolare i flussi, prima con la legge Turco-Napolitano del 1998, che riconosceva i ricongiungimenti familiari, quindi la legge Bossi-Fini del 2002 che istituì il reato di clandestinità. Il tutto scandito da una serie di sanatorie. Le diverse regolazioni restarono però sempre all’interno del perimetro giuslavoristico, senza considerare che, come disse il filosofo svizzero Max Frisch a proposito degli immigrati italiani in Svizzera, «avevamo bisogno di braccia, sono arrivate persone».

Quali sono i luoghi dove la paura è più evidente?
I luoghi della paura del migrante non sono i luoghi di lavoro (la casa per le badanti, le fabbriche e i campi per gli operai e i braccianti agricoli, ecc), ma sono quelli fuori dalle mura del lavoro, nei luoghi di socialità, nelle scuole, negli ospedali, nel rapporto con l’ordine pubblico. Il processo di diffusione dei flussi migratori sul territorio italiano segue la geografia diffusa delle economie territorializzate, scongiurando la creazione di banlieues metropolitane, pur con la creazione di piccoli e grandi ghetti come per esempio nelle esperienze di Padova, Sassuolo, Prato.

Tuttavia il fenomeno migratorio si fa sempre più articolato e complesso, ponendo il continente europeo al centro dei flussi…
Col nuovo secolo il tema delle migrazioni assume una connotazione più complessa, con un’articolazione altrettanto complessa delle paure. La geopolitica ci restituisce una faglia che snoda dal Marocco all’India, attraversando il Mediterraneo e l’antica Via della seta. Il Mediterraneo diventa un luogo-soglia, ma anche un enorme cimitero (3.771 morti accertati nel 2015). La via balcanica è un percorso a ostacoli con muri sempre più alti. La geo-economia ci restituisce la crisi finanziaria, la crisi del debito e una prospettiva da stagnazione secolare dalle conseguenze imprevedibili. La demografia ci restituisce squilibri globali sempre più ampi: l’età media degli africani oscilla tra i 15 e i 20 anni, quella degli europei intorno ai 45 anni. La crisi ambientale prepara una nuova figura, quella del «migrante ambientale».

In Europa si rivedono muri e fili spinati. Come valuta questo fenomeno?
Il salto di complessità fa saltare i confini e l’essere in comune. Crescono le comunità del rancore, resistono le comunità di cura, entrano in crisi le comunità operose: l’Unione Europea, la statualità e la società, che non riescono a esprimere una visione e una prospettiva dello sviluppo di lungo periodo, oltre l’emergenza. Senza questa visione i confini diventano facilmente muri, intorno ai quali prolifera un’ambigua economia del margine che oscilla tra accoglienza e speculazione sull’emergenza (sia a livello alto con il Migration Compact, sia a livello basso nei territori».

Quali strade percorrere per favorire l’integrazione?
Occorre partire dal presupposto che il meticciamento è il nostro destino e, ancor più, quello dei giovani. Di questo devono essere consapevoli le grandi istituzioni, i territori, le città. Alcuni esempi e proposte: 3X1000 inteso come 3 profughi X 1000 abitanti, come già proposto e sperimentato in alcune aree del Paese, servizio civile orientato a farsi carico delle problematiche dell’accoglienza così da mettere in gioco i giovani.