Dovrà essere educato secondo la religione cattolica, a norma di diritto dello stato pontificio, a seguito della pentita confessione della ex domestica che afferma di averlo battezzato di nascosto a sei mesi in punto di morte.
Portato a Roma per rieducarlo alla “vera” fede, i genitori Momolo (Fausto Russo Alesi) e Marianna (Barbara Ronchi) faranno il possibile per riaverlo, aiutati dalla comunità ebraica locale e internazionale, nonché sostenuti dalla stampa liberale e dall’opinione pubblica di un Paese, in epoca risorgimentale, ribelle al Papa Re Pio IX (Paolo Pierobon). Questo il fatto, il cui interesse aveva attirato pure l’attenzione di Steven Spielberg, narrato in “Il Caso Mortara” di Daniele Scalise, da cui Marco Bellocchio si è ispirato per realizzare “Rapito”, film presentato ora a Cannes, scritto con Susanna Nicchiarelli (che ricordiamo per “Chiara”).
Una ricostruzione storica del tempo ben fatta (fedele?), con un cast eccezionale, dai tratti noir, che si sofferma più sul racconto degli inizi della vita di don Edgardo Pio Mortara, che convertitosi forzatamente, nonostante la possibilità di liberarsi di una fede imposta, resterà non solo cattolico, ma morirà a Liegi nel 1940 consacrato a Dio. Un vero e proprio “mistero”, riconosciuto dallo stesso Bellocchio, che il film però riesce solo in parte a cogliere, soffermandosi piuttosto sul senso di smarrimento del piccolo e poi giovane Edgardo (nonché sulla violenza impetrata) e poco su quell’adesione libera e indiscussa (certamente combattuta) di fede, protratta da quest’ultimo fino alla fine della propria esistenza.
Restano le domande. Come dice però il regista: “È un film, non è né un libro di storia o di filosofia, né una tesi ideologica”. Per vederlo occorre, quindi, ricordarselo.