Negli Stati Uniti si sono resi conto che l’ansia è un’emozione soffocante nella vita di troppi giovani. Li accompagna sin dall’inizio della pubertà. Arriva per le pressioni della società del benessere, che subordina però questo “essere bene” o, in altre parole, “essere buoni”, alla competitività. Il nuovo sogno americano che viene inculcato dai media e dalla retorica è che la versione migliore di sé stessi si ottiene battendo gli altri, integrandosi, vivendo al massimo per raggiungere i propri obiettivi.
Questo è ciò che racconta Inside Out 2. Se il primo restituiva dignità alla tristezza, questo sequel usa le emozioni complesse dell’adolescenza: imbarazzo, invidia e noia. La leader è appunto ansia, così dinamica da diventare paralizzante (il film lo mostra bene). I nuovi arrivati si contendono la “console” di Riley con le emozioni primarie. Siamo dentro e fuori dalla testa della protagonista, alle prese con un campeggio sportivo, con la distanza da casa e con la voglia di piacere alle ragazze più grandi.
Va specificato che il film parla più ai genitori che ai bambini, pur essendo bilanciato per essere godibile anche da loro (meglio dai 10 anni in su). Come spesso capita con queste opere scritte e animate con precisione quasi scientifica, l’impressione è di un’opera troppo equilibrata per accontentare tutti, dallo spirito quasi didattico e programmatico. Non per forza un male. La regia di Kelsey Mann vive su quanto di buono fatto nel capitolo precedente, come la costruzione visiva di un mondo interiore descritto in maniera geniale.
Si aggiunge complessità. L’esperienza emotiva di Riley è quella di una bambina bianca, sana, benestante, ma la scrittura prova a essere il più universale possibile. Gli alberi della personalità sono l’aggiunta migliore del sequel. I genitori possono impostare il primo, quello dell’infanzia. Il secondo verrà costruito sulle fondamenta, con la crescita, nel rapporto con gli altri.
La persona è per Inside Out 2 un cantiere in continua costruzione, distruzione e cambiamento. L’incognita di ciò che si diventerà genera ansia nei giovani, e l’esito di questa ricostruzione la fa riemergere anche nei genitori. Eppure tutto serve, tutto va abbracciato e chiamato per nome in un film fin troppo perfetto per parlare… di imperfezione.