La scena migliore di Ferrari è un montaggio alternato. Da una parte le prove di velocità delle auto e contemporanea la messa, che si svolge poco distante. I rumori del circuito si sentono sull’altare. Enzo Ferrari e il resto della dirigenza assistono alla cerimonia religiosa. Quella laica invece, composta da ferro e motori, è scandita dallo sparo che segna i giri effettuati. I fedeli hanno le mani giunte, dentro non appoggiano una particola bensì un cronometro, con cui tengono traccia di quello che succede lì vicino. Quando escono dalla chiesa commentano i tempi del nuovo veicolo. È l’idea migliore con cui Michael Mann racconta l’Italia e il mito di Ferrari. Una nazione appassionata in cui la fede è anche un’idea di sviluppo ed eccellenza.
L’interpretazione di Adam Driver è di un uomo potente: Enzo è quasi un sindaco ombra di Modena, che tutto amministra e a cui tutti fanno riferimento. C’è l’uomo da una parte, la macchina dall’altra. In mezzo c’è il lutto per la morte prematura del figlio Dino e la crisi del matrimonio con Laura (Penélope Cruz). Non sempre questo piano sentimentale si amalgama bene con le sequenze (girate benissimo, ma non ci si aspetta altro da Mann) delle corse delle auto.
Gli spunti migliori sono altrove: nella creazione ingegneristica che diventa bellezza. Come una forma espressiva dell’arte, la creazione di auto perfette è un bisogno intimo dell’uomo. Lui a sua volta è guardato dall’oggetto e si perde nei fogli con i disegni assomigliando sempre di più a una macchina, diventa sempre più freddo, calcolatore, geniale. Nel momento più drammatico del film si capisce che Ferrari non è interessato al mito dell’uomo che presta il cognome al film, ma a una visione complessa.
Qui si ritrova il cinema Michael Mann, in un guizzo finale di analisi umana che ha il coraggio di mettere in scena le contraddizioni e le fragilità di un mito italiano.