Denti da squalo ha tutto questo dentro però una storia di formazione dai toni fiabeschi. Quelli pronti a mordere, sono i denti dei malavitosi che Walter, un bambino che ha appena perso il padre, incontra nel suo peregrinare alla ricerca di qualcosa. C’è sì la paura, ma è quella di restare solo con la madre (Virginia Raffaele straniante in una parte seria).
La sopravvivenza è quella dai guai in cui si caccia quando scopre una villa abbandonata che apparteneva a un boss della mafia locale. Vicino c’è un’enorme piscina da cui spunta una pinna. Lì infatti vi risiede un enorme Squalo. Il regista Davide Gentile percorre il sentiero tracciato dai grandi film di formazione. Se in Stand by Me quello che innescava la crescita dei protagonisti era la scoperta di un cadavere, qui è il segreto nascosto nell’acqua che il bambino deve condividere con un nuovo amico: Carlo. Lo spazio abbandonato diventa così un magnete che attrae questi due giovani inquieti e pian piano li cambia.
Diventare grandi è una trasformazione, spesso mostruosa, segnata da fantasmi e da pericoli, simboleggiati dall’idea visiva migliore del film: sotto la villa c’è una finestra che dà sulla piscina. Lì Walter tocca il vetro, come se fosse uno schermo cinematografico, e in quel momento si palesa il suo alter ego, quella creatura temibile, imprigionata in pochi metri quadrati. Denti da squalo presenta alcune ingenuità sia nella costruzione del rimo che nelle performance, spesso troppo “costruite”. Il suo maggiore interesse è nella sceneggiatura che sa ispirarsi a molti romanzi di formazione classici per declinarli nel contesto italiano. Come nel cinema di Matteo Garrone (qui gli ambienti sembrano quelli di Gomorra) c’è un grande realismo spezzato dalla magia, un fantastico che entra in punta di piedi. Questo è crescere: vedere il mondo alla luce delle esperienze, senza però abbandonare gli occhi di un bambino.