Con After Work Gandini prende le mosse dalle riflessioni di Noam Chomsky sul rapporto tra lavoro e automazione. In altri termini: un domani gran parte del lavoro potrebbe venir sostituito dalle macchine. Che cosa ne sarà dell’uomo? Attraverso quattro scenari agli antipodi il documentario guarda al futuro descrivendo il presente. Così i cittadini della Corea del Sud che lavorano 14 ore, tanto da costringere il governo a campagne per incentivare il tempo libero, sono messi in dialogo con quelli del Kuwait. Lì la ricchezza è tale, ed è arrivata così velocemente, che i dipendenti pubblici vanno in ufficio per dovere, senza però avere nulla da fare.
Mentre negli Stati Uniti l’etica del lavoro, l’abnegazione dei dipendenti, è considerata più importante dell’istruzione, in Italia esplode il fenomeno dei NEET. Sono giovani che non studiano e non hanno lavoro, ma non sono nemmeno alla ricerca di un’occupazione. La domanda che, con intelligenza, pone il regista è se questo non sia tutto collegato, se non ci sia nelle nuove generazioni un rifiuto di un modello di lavoro totalizzante.
Questo “no”, può essere più sano di una vita trascorsa a riempire di informazioni un computer. Tra le tante domande poste dal documentario (le risposte sono lasciate tutte a noi) la migliore è quella su cosa ne sarà della nostra umanità. Immaginiamo di non dover più lavorare da un giorno all’altro. Avremo ancora la fantasia di inventarci una vita appagante? O la nostra identità è così collegata alla professione che, finita questa, restiamo in balia delle giornate? Se il lavoro nobilita l’uomo, allora è importante curarlo. Gestirlo affinché sia sempre un’attività nobile, equa, giusta, e rispettosa di quest’uomo che sempre deve essere il centro del suo orizzonte.