Il Festival di Venezia è entrato nel vivo dopo quasi una settimana di proiezioni e c’è un filo rosso che collega le pellicole fino a ora viste e anche quelle che stanno per arrivare. Questo filo comune riguarda il tema della religione, della fede, del rapporto con la spiritualità. Un segnale interessante che pellicole che provengono da tutto il mondo siano attraversate da questa tematica e si sforzino di sviscerarla, ognuno a proprio modo e con il proprio stile. Anche se, spesso, queste pellicole da Festival affrontano una materia così delicata e importante con prese di posizione ideologiche ben precise e il più delle volte critiche.
In concorso si sono visti The Master di Paul T. Anderson e Paradise: Faith di Ulrich Seidl che, con linguaggi differenti, hanno però affrontato lo stesso soggetto: quando la fede diventa fanatismo. Il primo film è americano, girato nel formato panoramico 70 millimetri, con grandi movimenti di macchina e grandi attori, e racconta il legame che nasce tra un reduce nell’America anni Cinquanta e un brillante predicatore che fonda una sua personale setta, devota a un suo personale culto. Storia che si dice sia ispirata a Rob Hubburd, l’inventore di Dyanetics, la “Bibbia” della moderna Scientology. Il secondo film è austriaco, girato con la macchina da presa che spesso è fissa nelle sue inquadrature e con attori sconosciuti, e racconta la devozione che sfocia nel fanatismo di una donna che vuole convertire tutti alla parola di Cristo. Un film che ha suscitato polemiche per alcune inutili scene, volutamente provocatorie.
Le due pellicole, dunque, se pur distanti come stile cinematografico, sono accomunate da uno stesso sentimento: quello del voler denunciare il rischio del fanatismo religioso e della manipolazione cui può portare seguire determinati credo. Non interessa il perché della ricerca da parte delle persone di una fede che possa dare senso alle proprie vite, bensì si denuncia il “marcio” che possono portare con sé. Una presa di posizione ideologica ben precisa e fortemente critica, dunque. Presa di posizione che non mancherà certamente, non ne dubitiamo, nel film di Marco Bellocchio La bella addormentata, che verrà presentato nel Concorso ufficiale e racconta il recente caso legato a Eluana Englaro e a tutto il dibattito sull’eutanasia.
Un altro autore che parla nel suo film di fede o più che altro di spiritualità è Terrence Malick, che dopo The Tree of Life continua la sua dissertazione filosofica in immagini sul senso della vita, sull’esistenza dopo la morte, sul miracolo della natura e dell’amore. To the wonder continua sulla strada della precedente pellicola del regista americano e adotta sempre uno stile visivo e poetico e nient’affatto narrativo; come il precedente film ha il potere di spaccare il pubblico: c’è chi lo ha apprezzato e lo considera già un capolavoro, chi invece lo ha rifiutato e pensa sia un insieme eterogeneo e sconnesso di temi non ben esposti. Un film comunque che fa riflettere e, a differenza degli altri di cui si è parlato, non considera la spiritualità come un qualcosa di negativo, subito pronta a trasformarsi in fanatismo, bensì la considera il senso della nostra esistenza. Certo, anche in Malick questa spiritualità si veste un po’ di animismo New Age, ma è comunque il segno di una ricerca sincera e soprattutto non ideologicamente condizionata.