Un gran bel film, e non solo per la sua impressionante serie di nominations, o perché a Cannes 2013, il protagonista è stato premiato come miglior attore, ma perché quello che vi si racconta, con grazia, in un suggestivo bianco e nero, è una storia che non ha confini. Nebraska, la pellicola che conclude il secondo ciclo dell’iniziativa «Campo totale», è questo: la vicenda di un itinerario dei sentimenti, vissuto tra il Nebraska e il Montana da un padre e un figlio – Woody e David – che diviene la metafora di quel viaggio avventuroso che sono la vita, con le sue diverse età, e il legame tra le generazioni.
«In effetti, uno degli aspetti più interessanti del film mi pare che sia questo sguardo sul rapporto padre-figlio, questione accantonata per lunghi anni nelle nostre società industriali occidentali – spiega lo psicologo e psicoterapeuta Claudio Risé, già docente universitario di Scienze sociali e autore di saggi sul problema tradotti nei vari continenti, che interverrà dopo la proiezione del 5 settembre, così come il vicario episcopale monsignor Carlo Faccendini, ad approfondire il senso del Nebraska di Alexander Payne -. Sul rapporto col padre poggia la capacità del figlio di rapportarsi all’altro da sé. Questo perché il padre è il primo “altro” che l’individuo incontra, dato che la madre dopo la lunga simbiosi prima e dopo la nascita, è inizialmente vissuta come un aspetto di sé. Per questa sua “alterità” il rapporto col padre è quindi determinante per la relazione con la società e gli aspetti sociali come il lavoro o il denaro. Studi psicologici, socio-biologici, statistici illustrano come questo scambio tra padre e figli sia necessario alla formazione di un “io” in grado di confrontarsi positivamente col mondo. La mancanza di una figura paterna presente e consapevole delle proprie funzioni produce un doloroso senso di vuoto e di bisogno che può portare a scoppi improvvisi di aggressività e di violenza, come quelli purtroppo frequenti nelle cronache.
La «società senza padri», di cui lei parla nei suoi saggi, è vera e propria emergenza. Ma perché questa perdita è anche perdita del senso del trascendente?
Ogni padre è il rappresentante in terra del Padre dell’esperienza religiosa universale. Il padre, pur dando inizio con la madre al concepimento e alla vita, rimane “altro” dal figlio, mentre il legame con la madre, nel cui grembo il bambino si forma, e viene poi da lei nutrito, mantiene una forte valenza carnale e corporea. Questa relativa distanza paterna fa di lui il tramite tra il figlio e il resto del mondo, e il Padre. La figura paterna si indebolisce quando il mondo si allontana dal Padre.
Il cardinale Scola sottolinea spesso come la differenza tra le generazioni sia fondamentale e l’«orfananza » dell’uomo del Terzo millennio, in questa nostra stanca Europa, sia ragione di una sua profonda debolezza…
La crisi antropologica investe anche la madre, e viene da un modello sociale ed economico che ritiene di poter fare a meno del dono che è alla base della famiglia e dei suoi rapporti (Risé è autore anche di “Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo” edito da San Paolo, ndr). Dalle persone però emergono oggi slanci, bisogni di rinnovato incontro e dialogo tra generazioni, tra padre, madre e figli, che sono un segno assai positivo.
Possiamo allora, parlare di speranza, nella logica che ispira il ciclo dei tre film proposti e come pare suggerire la conclusione di Nebraska, con il ritrovato rapporto tra padre e figlio?
Sì. L’importante è assumerci la responsabilità della questione paterna e familiare. Prenderne coscienza e lavorare insieme per il futuro.