Il più grande spettacolo del mondo si terrà in Sudafrica, nella nazione arcobaleno, per usare un termine coniato dal premio Nobel Desmond Tutu. «Sarà il più bel Mondiale della storia», afferma Clive Barker, allenatore bianco che ha portato la Nazionale sudafricana a vincere la Coppa d’Africa del 1996. Lui non credeva ai miracoli, ma quest’anno si arrende all’evidenza.
In Sudafrica, dall’introduzione dell’apartheid nel 1948 fino alla sua scomparsa nel 1994, lo sforzo fu quello di separare le razze. Barker fu il primo a cercare di organizzare un torneo unico in Sudafrica, nel 1978. Fino ad allora il campionato ufficiale era solo per i bianchi, ma il calcio migliore veniva giocato nei campi polverosi dei neri. L’iniziativa era davvero rivoluzionaria; tuttavia il governo decise di tollerarla, forse perché i bianchi consideravano il calcio uno sport secondario rispetto al rugby.
Negli anni Ottanta Barker era allenatore dell’Ama Zulu, una squadra di serie A che schierava solo giocatori neri, e si trovò presto a essere vittima dell’apartheid: «Quando andavamo in trasferta dormivamo negli alberghi per i neri – racconta Barker -. Una volta arrivammo in un paese vicino a Kimberley. Mandai i giocatori nelle loro stanze e poi ne chiesi una per me. L’uomo della reception mi rispose che non poteva far dormire un bianco nel suo albergo. Così passai la notte nel furgone». I più colpiti dalle discriminazioni erano i giocatori. Una volta, sempre secondo il racconto di Barker, una hostess della linea sudafricana gli disse che i suoi ragazzi non potevano imbarcarsi. Per l’allenatore questi racconti, ora, fanno sorridere. Per i giocatori invece rappresentavano momenti dolorosi. Edward Montale giocava in una squadra dove la maggioranza era bianca: «Non potevo rientrare nello spogliatoio. Mi sedevo lontano dagli altri. Mi facevo la doccia fuori». Nei limiti della legge, però, i suoi compagni gli sono stati sempre vicino.
La presenza di giocatori bianchi in squadre che giocavano in stadi davanti a tifosi neri fu uno dei primissimi passi verso la fine dell’apartheid. Anticipò il messaggio di riconciliazione che Mandela avrebbe lanciato nel 1990, quando tornò in libertà dopo 27 anni di carcere. (…)
Quando Mandela uscì di prigione cambiò improvvisamente tutto. Il leader dell’African National Congress decise che lo sport doveva diventare lo strumento principale per ricostruire l’unità del Paese. Quando, nel 1995, gli Springbooks vinsero la finale del campionato mondiale di rugby contro la Nuova Zelanda, l’intero Sudafrica si unì in un abbraccio felice. L’anno successivo la nazionale di calcio vinse la Coppa d’Africa. I bianchi avevano fatto il tifo per una squadra interamente nera: solo tre erano i giocatori bianchi, tra cui il capitano Tovey. (…)
L’ex allenatore tedesco Sepp Herberger una volta disse: «Il pallone è rotondo affinché il gioco possa cambiare direzione». Ci auguriamo che con il Mondiale 2010 l’Africa riesca, anche come continente, a imboccare una direzione ben precisa: quella della ripresa. Il più grande spettacolo del mondo si terrà in Sudafrica, nella nazione arcobaleno, per usare un termine coniato dal premio Nobel Desmond Tutu. «Sarà il più bel Mondiale della storia», afferma Clive Barker, allenatore bianco che ha portato la Nazionale sudafricana a vincere la Coppa d’Africa del 1996. Lui non credeva ai miracoli, ma quest’anno si arrende all’evidenza.In Sudafrica, dall’introduzione dell’apartheid nel 1948 fino alla sua scomparsa nel 1994, lo sforzo fu quello di separare le razze. Barker fu il primo a cercare di organizzare un torneo unico in Sudafrica, nel 1978. Fino ad allora il campionato ufficiale era solo per i bianchi, ma il calcio migliore veniva giocato nei campi polverosi dei neri. L’iniziativa era davvero rivoluzionaria; tuttavia il governo decise di tollerarla, forse perché i bianchi consideravano il calcio uno sport secondario rispetto al rugby.Negli anni Ottanta Barker era allenatore dell’Ama Zulu, una squadra di serie A che schierava solo giocatori neri, e si trovò presto a essere vittima dell’apartheid: «Quando andavamo in trasferta dormivamo negli alberghi per i neri – racconta Barker -. Una volta arrivammo in un paese vicino a Kimberley. Mandai i giocatori nelle loro stanze e poi ne chiesi una per me. L’uomo della reception mi rispose che non poteva far dormire un bianco nel suo albergo. Così passai la notte nel furgone». I più colpiti dalle discriminazioni erano i giocatori. Una volta, sempre secondo il racconto di Barker, una hostess della linea sudafricana gli disse che i suoi ragazzi non potevano imbarcarsi. Per l’allenatore questi racconti, ora, fanno sorridere. Per i giocatori invece rappresentavano momenti dolorosi. Edward Montale giocava in una squadra dove la maggioranza era bianca: «Non potevo rientrare nello spogliatoio. Mi sedevo lontano dagli altri. Mi facevo la doccia fuori». Nei limiti della legge, però, i suoi compagni gli sono stati sempre vicino.La presenza di giocatori bianchi in squadre che giocavano in stadi davanti a tifosi neri fu uno dei primissimi passi verso la fine dell’apartheid. Anticipò il messaggio di riconciliazione che Mandela avrebbe lanciato nel 1990, quando tornò in libertà dopo 27 anni di carcere. (…)Quando Mandela uscì di prigione cambiò improvvisamente tutto. Il leader dell’African National Congress decise che lo sport doveva diventare lo strumento principale per ricostruire l’unità del Paese. Quando, nel 1995, gli Springbooks vinsero la finale del campionato mondiale di rugby contro la Nuova Zelanda, l’intero Sudafrica si unì in un abbraccio felice. L’anno successivo la nazionale di calcio vinse la Coppa d’Africa. I bianchi avevano fatto il tifo per una squadra interamente nera: solo tre erano i giocatori bianchi, tra cui il capitano Tovey. (…)L’ex allenatore tedesco Sepp Herberger una volta disse: «Il pallone è rotondo affinché il gioco possa cambiare direzione». Ci auguriamo che con il Mondiale 2010 l’Africa riesca, anche come continente, a imboccare una direzione ben precisa: quella della ripresa. Crescere in umanità – Un volume per non perdere di vista la dimensione educativa dello sport, e in particolare del calcio; un invito a vivere Sudafrica 2010 non da semplici spettatori, ma da veri protagonisti. Si tratta di Venti mondiali (Centro Ambrosiano, 152 pagine, 9 euro), di don Alessio Albertini, prete in un oratorio di Milano, segretario della Commissione dello Sport della diocesi di Milano, nonché fratello di Demetrio, ex calciatore di Milan e Nazionale. La grande familiarità con il calcio consente a don Alessio di sottolineare in questo libro come anche attraverso lo sport si possa crescere in umanità.
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“Venti mondiali”: l’apartheid e altre storie
Mentre in Sudafrica il torneo iridato si avvia alla conclusione, proponiamo una delle storie che don Alessio Albertini ha raccolto nel suo nuovo libro: un volume per non perdere di vista la dimensione educativa dello sport
di Alessio ALBERTINI Redazione
5 Luglio 2010