29 maggio 1985: prima della finale di Coppa dei Campioni
tra Juventus e Liverpool, una “carica” degli hooligans inglesi
travolge un gruppo di tifosi bianconeri e il crollo del muretto
di una curva provoca una strage. Muoiono 39 persone,
in gran parte italiane. Una tragedia assurda, da cui trarre
precisi moniti per far sì che non accadano vicende analoghe
di Bruno Pizzul
Ci sono, sedimentate nel ricordo, esperienze che lasciano tracce profonde, che si vorrebbe poter cancellare. Ma non si può, non si deve. Heysel: per me la sola parola evoca sensazioni angosciose, un disagio che riguarda la sfera della coscienza, l’aspetto umano.
Sono passati vent’anni da quella terribile notte in cui, per una partita di pallone, ci furono 39 morti e un’infinita scia di dolore. Confesso un costante senso di imbarazzo quando vengo sollecitato a ricordare ciò che accadde, anche perché, in piena buona fede, mi si chiede una testimonianza di carattere professionale: quali difficoltà incontrai nel raccontare quella tragedia, che problemi ebbi per comunicare nel modo meno traumatico la drammatica realtà.
E invece dentro di me è restato solo lo sgomento per l’assurda tragedia, l’inaccettabile sensazione che ci fossero morti e feriti, lutti e lacrime in un contesto che, nonostante la sovraeccitazione che spesso caratterizza il tifo sportivo, avrebbe dovuto essere di festa, di condivisione di un momento ludico.
Certo, l’aspetto professionale non fu facile, anche perché le notizie arrivavano in maniera contradditoria e c’era l’ovvia esigenza di comunicarle quasi centellinando il flusso informativo, nel tentativo di preparare un po’ alla volta quanti stavano ai teleschermi e magari avevano parenti e amici in quello stadio, a una realtà che andava facendosi di momento in momento più dolorosa.
Ricordo, per esempio, quanto mi costò decidere di non far parlare al microfono i pochi che, raggiunta la postazione, mi chiedevano di poter far sapere ai parenti che erano vivi, che se l’erano cavata: è stato molto duro vietare quel naturalissimo desiderio di tranquillizzare mamme, mogli o amici; ma decisi, non so se a ragione o a torto, che se avessi attivato quella specie di improvvisato e comunque parziale ponte radio-televisivo, avrei involontariamente contribuito a gettare nella costernazione e nell’angoscia le migliaia di mamme, mogli o amici cui non poteva pervenire alcun messaggio personale rassicurante.
Molto poi mi colpì il racconto commosso di monsignor Pierino Carnelli, indimenticato testimone della Chiesa nel mondo dello sport professionistico: mentre la terribile serata volgeva ormai al termine, incontrò l’allora presidente della Juventus Boniperti il quale, tra le lacrime, gli confidò che, subito dopo il fatale crollo di quel muro, si era precipitato tra i feriti e i moribondi e tutti gli chiedevano di trovare un prete, per l’ultimo conforto. «E io non ho saputo trovarlo», si rammaricava.
Di quella tragica notte molto si è parlato, spesso in termini di cruda ricostruzione giornalistica. Sono state individuate responsabilità, formulate accuse di ogni genere. Ma, ripeto, credo che sarebbe opportuno soprattutto utilizzare quei dolorosissimi ricordi per comprendere come sia indispensabile accompagnare la propria passione sportiva con il corredo della tolleranza, della buona educazione, della consapevolezza che gli stadi sono luoghi a rischio.
Da ultimo non posso non riferire un altro motivo di profonda amarezza: mi ero convinto che l’enormità di quanto accaduto avrebbe, almeno per un po’, indotto i tifosi a comportamenti più riflessivi e maturi. Invece nulla cambiò, anzi ci furono addirittura insopportabili strumentalizzazioni dettate dal mai abbastanza deprecato “tifo contro”.
Brutto da dire, doloroso da ricordare. Ma dobbiamo comunque avere la forza e la costanza per urlare «mai più un nuovo Heysel».