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Anniversario

Sessant’anni fa
il K2 diventava “italiano”

Il 31 luglio 1954 Compagnoni e Lacedelli erano i primi uomini a giungere sulla vetta della seconda montagna del mondo. Al di là delle polemiche che ne seguirono, l’impresa resta una pietra miliare nella nostra storia nazionale

di Mauro COLOMBO

27 Luglio 2014

«Vittoria alla data del 31 luglio. Tutto bene. Tutti al campo base». Con questo telegramma, ai primi di agosto del 1954, il capospedizione Ardito Desio annunciò al mondo che l’Italia aveva conquistato il K2, la seconda montagna più alta della Terra dopo l’Everest. Per sua esplicita consegna, a lungo si ignorarono i nomi degli scalatori giunti in vetta: solo a distanza di tempo si seppe che erano il valtellinese Achille Compagnoni e il cortinese Lino Lacedelli. A quella rivelazione ne seguiranno altre, che attireranno sulla conquista violente polemiche e strascichi giudiziari. Sessant’anni dopo, però, rimane il significato di un’impresa che riportò l’Italia agli onori del mondo dopo gli anni bui della guerra.

Alto 8611 metri e chiamato Chogori dai Baltì, la popolazione locale, il K2 fu battezzato così dall’inglese T.G. Montgomery, membro del Great Trigonometrical Survey, che nel 1856 effettuò i primi rilievi per conto della Royal Geographic Society. K2 stava per Karakorum 2, cioè seconda cima del Karakorum, e nascondeva un errore di misurazione: come K1 venne indicato il Masherbrum, che invece in seguito risultò essere più basso. Il primo europeo a giungere alle sue pendici fu il colonnello Henry Godwin Austen, nel 1861.

Ma furono soprattutto gli italiani a effettuare diverse missioni esplorative e scientifiche sulla catena montuosa del Karakorum. La prima fu quella guidata nel 1909 da Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, il Duca degli Abruzzi. Della spedizione faceva parte il fotografo Vittorio Sella, autore di un’imponente documentazione che poi risulterà preziosa per i tentativi successivi. La spedizione salì fino a circa 6000 metri lungo lo Sperone Est della montagna, da allora noto come Sperone degli Abruzzi e ancora oggi tracciato più utilizzato per raggiungere la vetta.

Del 1913 fu la prima missione interamente e rigorosamente scientifica, guidata da Filippo de Filippi, che per il metodo con cui venne condotta sarà presa a modello dalle spedizioni che la seguiranno. Nel 1929 Aimone di Savoia-Aosta, Duca di Spoleto e nipote del Duca degli Abruzzi, organizzò una nuova spedizione con l’obiettivo di scalare il K2 e con scopi geografici e cartografici. L’impresa dovette arrestarsi a circa 6000 metri a causa delle proibitive condizioni atmosferiche. Una nuova e accurata documentazione fotografica fu realizzata da Massimo Terzani. Della spedizione faceva parte anche il giovane Ardito Desio, geografo e geologo, che poi sarà artefice e protagonista di numerose campagne negli anni Cinquanta.

La vetta del K2 rimase inviolata fino alla fine della seconda guerra mondiale. Nel 1953 – anno della conquista dell’Everest – ci provarono gli americani, ma il tentativo non ebbe successo. In quei mesi il Governo italiano ottenne da quello pakistano il permesso per compiere una nuova spedizione nel 1954.

La responsabilità fu affidata a Desio e Riccardo Cassin, il più famoso scalatore italiano, che avevano già effettuato una ricognizione al campo base. Ma poi Cassin venne escluso per non avere superato alcuni esami medici attitudinali: la decisione suscitò polemiche. Desio selezionò dodici scalatori: Erich Abram, Ugo Angelino, Walter Bonatti, Achille Compagnoni, Cirilllo Floreanini, Pino Gallotti, Lino Lacedelli, Guido Pagani (medico), Mario Puchoz, Ubaldo Rey, Gino Soldà e Sergio Viotto. Il cineoperatore Mario Fantin fu incaricato di realizzare i filmati. Alla spedizione si aggiunse un’équipe di scienziati.

Partenza alla metà di aprile in aereo, mentre i materiali erano già in viaggio per il Pakistan via mare. Il 27 aprile la spedizione si mise in marcia da Skardu, con un imponente seguito di portatori che in alcuni momenti raggiunse le 700 unità. Il 14 maggio l’arrivo al campo base. La via d’ascesa prescelta era lo Sperone Abruzzi, previsti nove campi. Il primo mese venne impiegato per attrezzare con corde fisse il percorso fino al campo 4. Ma il 21 giugno la morte di Mario Puchoz, colpito da edema polmonare, mise in forse il proseguimento dell’impresa.

Vinto lo sconforto, il lavoro riprese e a metà luglio gli scalatori installarono il campo 7 a oltre 7000 metri. A questa quota rimasero Abram, Bonatti, Compagnoni, Floreanini, Gallotti, Lacedelli e Rey. Dopo avere montato il campo 8 a 7700 sotto un muro di ghiaccio, il 30 luglio Compagnoni e Lacedelli partirono per attrezzare il campo 9, l’ultimo prima della vetta. Intanto Bonatti e Gallotti scendevano al campo inferiore per recuperare l’ossigeno necessario per l’ultimo tratto.

Prese le bombole, Bonatti risalì verso il campo 9 con l’hunza Mahdi. Ma il previsto ricongiungimento con Compagnoni e Lacedelli non avvenne. «Perché Bonatti ha fatto un’altra strada per arrivare lui in vetta…», sosterranno Compagnoni e Lacedelli. «Perché il campo 9 non era dove avrebbe dovuto essere…», avrebbe replicato Bonatti. Lui e Mahdi furono costretti a trascorrere la notte in un bivacco improvvisato in mezzo alla neve, a 8000 metri. Miracolosamente sopravvissuti, all’alba lasciarono le bombole a disposizione dei compagni e ridiscesero.

Compagnoni e Lacedelli iniziarono l’estenuante marcia verso la vetta, tra tratti rocciosi, neve alta e pericolose traversate, facendo appello alla loro forza di volontà per proseguire. Alle 18 misero finalmente piede sulla vetta spazzata dal vento. Il tempo di fare qualche ripresa filmata e poi la discesa nel buio, lenta e rischiosa, conclusa con l’arrivo al campo 8 intorno a mezzanotte.

Negli anni successivi la discordanza tra la versione di Compagnoni e Lacedelli – sostenuti da Desio – e quella di Bonatti sull’ultima fase dell’ascesa provocherà violente polemiche, accuse reciproche e strascichi giudiziari. Finché, nel 2008, il Club Alpino Italiano accrediterà la tesi di Bonatti, scagionandolo completamente dalle accuse mossegli e sottolineando il contributo decisivo da lui apportato al felice esito dell’impresa.

Le altre imprese

Tra i conquistatori italiani del K2 c’è Reinhold Messner, che nel 1979 raggiunge la vetta senza ossigeno. Del 1983 è la spedizione che dallo spigolo nord porta in cima prima Agostino Da Polenza (con Josef Rakoncaj) e poi Fausto De Stefani e Sergio De Martini. Da Polenza guida un’altra spedizione vincente nel 1986, anno in cui il vicentino Renato Casarotto muore cadendo in un crepaccio. Dieci anni dopo un’altra spedizione guidata da Da Polenza lungo lo Sperone Abruzzi vede raggiungere la vetta Mario e Salvatore Panzeri, Giulio Maggioni e Lorenzo Mazzoleni, che in discesa cade e muore: in sua memoria, nel villaggio di Askole, viene costruito un ambulatorio medico. A cinquant’anni dall’impresa di Compagnoni e Lacedelli, nel luglio del 2004 la scalata viene portata a termine da Silvio Mondinelli, Karl Unterkircher, Michele Compagnoni, Ugo Giacomelli e Walter Nones, e poi da Mario Dibona, Renato Sottsass, Marco Da Pozzo e Renzo Benedetti. Dopo Daniele Nardi, Mario Vielmo e Stefano Zavka (perito poi in una bufera) nel 2007, a giungere in vetta nel 2008 è Marco Confortola. E qualche giorno fa, il 26 luglio, in occasione dell’anniversario dell’impresa del 1954, altri quattro italiani hanno raggiunto la cima insieme a sei pakistani: Tamara Lunger, Klaus Gruber, Giuseppe Pompili e Michele Cucchi, componenti di una spedizione promossa da EvK2Cnr e coordinata dal campo base da Agostino Da Polenza e Muhammad Taqi.