In tuta, fresco di doccia dopo l’allenamento della Nazionale, Cesare Prandelli, commissario tecnico della Nazionale, è circondato da bambini in gita al museo del calcio di Coverciano con gli insegnanti.
Cosa le dà soddisfazione alla fine di una partita?
«La prestazione. Non basta fermarsi a considerare se abbiamo giocato bene. Posso ritenermi soddisfatto se abbiamo avuto la continuità del lavoro svolto nei giorni precedenti. Quando ci alleniamo prepariamo una, due situazioni di gioco. Se in partita i giocatori riescono ad applicare tutto questo, allora l’allenatore deve essere orgoglioso di loro».
A prescindere dal risultato?
«Al di là. Il comportamento della squadra, la ricerca del gioco, di quello che hai fatto per arrivare fin lì, per non essere in balìa dell’istinto. La maggior parte dei giocatori ha l’istinto del gioco, ma c’è una preparazione prima».
Qualche volta si spazientisce anche il mister?
«Certamente. Di solito quando non capiscono che ci sono dei limiti di sopportazione. Quando c’è una provocazione che può essere una forma di arroganza, di sfida. Poi mi confronto con chi mi ha fatto arrabbiare. E mi calmo».
Lei è stato il primo allenatore della Nazionale ad aver varato un codice etico. Cosa l’ha mossa a seguire questa strada non usuale nel mondo del calcio?
«Ne ho semplicemente parlato con i ragazzi durante i primi giorni di ritiro, quando abbiamo iniziato quest’avventura. Ho detto: “Secondo voi è giusto che io convochi un giocatore espulso, che si è comportato male, che ha dato luogo a episodi violenti?”. Hanno detto di no e da li è nato questo codice. È il nostro modo per onorare la maglia azzurra. Poi in molti hanno voluto polemizzare e interpretarlo a modo loro: questo in Italia è facile che accada. Però i ragazzi lo hanno sempre accettato nella maniera più trasparente perché il codice è per loro. Io non posso pensare di convocare un giocatore che pone in atto comportamenti da squalifica, non per somma di ammonizioni, ma per gioco violento, per proteste ed episodi del genere».
Per cui lei ha adottato il codice etico di concerto con la squadra.
«Sì, ascoltando tutti. Poi è chiaro che se uno vuol far polemica alla fine la trova. Come è successo per Mario Balotelli. La squalifica scadeva il giorno prima del nostro raduno, quindi non potevo assegnare una punizione doppia. Però, a volte, i giornalisti vogliono fare qualche polemica».
A che età ha dato il primo calcio a un pallone?
«Ero ragazzino, sono cresciuto all’oratorio, e sognavo, come tutti, di giocare a palla appena avevo 10 minuti. Ho vissuto, e vivo tutt’ora, in una casa in cui basta attraversare la strada per andare all’oratorio».
Quando ha capito che avrebbe fatto il calciatore di professione?
«Quando mi hanno proposto un contratto serio, da professionista. Anche perché ho avuto un’educazione abbastanza rigida: prima la scuola e poi il calcio. Se volevo giocare dovevo portare a casa dei bei voti, altrimenti la mamma difficilmente mi faceva trovare le scarpe. Per cui, dopo che ho preso il diploma da geometra, mi ha detto: “Ora puoi fare quello che vuoi”».
Dopo il diploma cosa è avvenuto?
«Avevo già iniziato la trafila nel settore giovanile della Cremonese. A 17-18 anni si capiva che quella del calcio sarebbe stata una buona strada. Quando vieni convocato a 16 anni, e ti fanno esordire in una squadra in Serie C, puoi pensare di avere qualche qualità. Ma sapevo che poteva capitare da un momento all’altro qualche infortunio. Quindi la raccomandazione della mamma era sacrosanta: “Prima hai il dovere di diplomarti e poi, eventualmente, penserai a giocare a calcio”».
Quando ha deciso di fare l’allenatore?
«Mentre stavo smettendo di giocare. Vennero nella mia stanza i giovani della squadra a chiedermi dei consigli sulla partita. Mi sono detto: “Forse potrei fare l’allenatore”».
Cosa fa Prandelli nel tempo libero?
«Fino a qualche anno fa giocavo a golf. Cinque ore su un campo erano un toccasana. Da quando faccio il ct della Nazionale, sembra un paradosso, ho poco tempo quindi vado a trovare la mamma, le sorelle, gli amici».
Va a cercare le persone?
«Proprio così. Prima, mentre salivo le scale per raggiungere questa sala, ho visto una foto di un mio carissimo amico. Ho pensato: “Appena ho due giorni liberi lo vado a salutare”».
Il 14 agosto Italia e Argentina si sono incontrate per un’amichevole in onore di Papa Francesco che vi ha ricevuto in Vaticano. Cosa le ha lasciato l’udienza?
«Per tutti è stato davvero un giorno speciale perché le sensazioni e le emozioni che si provano sono moltiplicate. Papa Francesco ha un impatto fisico, viene incontro, ti abbraccia, fa domande».
Che tipo di tifoso è il Pontefice?
«Nel discorso ha evidenziato che a lui piace molto una squadra che abbia etica, rispetto e un certo modo di stare in campo. Poi è chiaro che il calcio è un gioco maschio per cui ci sta anche il contrasto e comunque si deve accettare il risultato del campo. Ha tenuto un discorso da allenatore. I comportamenti sono importanti. Ma è altrettanto importante cercare un risultato».
Papa Francesco davanti a una partita di calcio. Secondo lei come partecipa?
«In modo intenso. Visto come si è rapportato con noi e cosa ha detto alla squadra argentina che era un po’ disordinata: “Mi rimproverano tutti di essere indisciplinato, ma avete visto come è il mio popolo?”».
In Brasile ha fatto tappa alla statua del Cristo Redentore sulla collina di Corcovado. A nessuno è sfuggito che per lei non era una semplice meta turistica.
«Secondo me questi posti vanno visitati. Io non impongo niente a nessuno. Propongo».