Un grande campione. Non c’è bisogno di usare verbi per descrivere Sandro Mazzola. Un’intera carriera calcistica nell’Inter prima come calciatore e poi come dirigente, oltre alle numerose presenze in Nazionale dove ha fatto conquistare all’Italia prestigiosi titoli e piazzamenti. Ci avviciniamo ai Mondiali in Brasile e alla fine del nostro campionato e Mazzola, nella sua casa di Vedano al Lambro (Mb), fa il punto sul calcio italiano e sulla Nazionale con uno sguardo al passato.
Quali sono le principali differenze tra la sua Inter e la sua Nazionale campione d’Europa e vicecampione del mondo?
Nella Nazionale dovevamo giocare con passaggi più corti e con una squadra più compatta, non avevamo un Suarez a fare lanci precisi di 40 metri. La differenza è questa. Quello che mi ha sempre meravigliato in quegli anni è che un grande giocatore come Mario Corso in Nazionale non giocava. Non si capisce perché. Una volta fu schierato come ala destra in una partita contro la Svezia. E lui era totalmente mancino…
Quali aspettative per il Brasile?
Buone. Secondo me possiamo arrivare in semifinale. Prandelli è bravo e sa motivare la squadra. I giocatori sono all’altezza. Poi, certo, ci vuole anche fortuna.
Lei e la sua famiglia avete dedicato una vita al calcio. Cosa fa scattare i forti legami che caratterizzano il mondo del calcio a qualsiasi livello?
È uno sport di gruppo. Quando vai a giocare a pallone in una piazzetta o in oratorio, impari ad aver fiducia anche in un ragazzo che non conosci bene. È un modo per entrare nel mondo. Una metafora della vita. Esiste la fortuna, chi è più o meno bravo, chi si impegna a fondo per raggiungere i risultati che si è prefisso. Senza accorgertene ti rendi conto di tanti fattori. Come diceva il mio grande maestro Peppino Meazza: «Questo è ciò che ti prepara a entrare nel mondo dei grandi». A prescindere dal fatto che ci entri da calciatore o meno, questo sport di gruppo comunque prepara a tutto questo: sapere che da solo difficilmente riuscirai a fare qualcosa, devi stare nel gruppo.
Lei ha debuttato molto giovane in una squadra, l’Inter, piena di campioni affermati. Com’era il rapporto giovani-anziani?
Molto diverso da quello di oggi. Gli anziani ti facevano fare molta gavetta. A cominciare dalle cose che fanno da cornice al gioco. Per esempio le scarpe da calcio venivano realizzate dagli artigiani in cuoio, per cui erano dure e le prime volte che le indossavi facevano venire le piaghe. Allora i giocatori della prima squadra ti davano le scarpe da sformare, come si diceva. Oggi non esiste una cosa del genere. Non solo perché le scarpe sono diverse, ma perché non c’è più questo rapporto tra i giocatori e i giovani che devono imparare.
Da giocatore che rapporti aveva col popolo interista?
Buoni, ma diverso dal rapporto che c’è oggi. I media entravano meno in casa. Sono approdato all’Inter a 12 anni e devo dire che i tifosi per me hanno sempre avuto un occhio di riguardo.
Fino a dove un tifoso è legittimato a influenzare le scelte di un club?
Non credo che sia legittimato a farlo. Secondo me il tifoso deve incitare la squadra e i giocatori. Nel club ci devono essere le persone che sanno cosa fare. Altrimenti arriviamo a un mondo che non mi appartiene, che non condivido e che combina solo disastri.
La tessera del tifoso non è riuscita a eliminare il problema ultrà. La partita da vivere anche nel “gruppo violento” da dove deriva? Perché si commettono reati allo stadio?
Si tratta di situazioni complesse. E ci sono cose che non vogliamo dire e capire. Voglio porre anch’io una domanda: c’è spaccio di droga nello stadio? La risposta è scontata. La droga circola negli stadi. È possibile che non si riesca, in un posto chiuso, a non far entrare certa gente e certe cose? Quella roba viene messa dentro prima che inizi la partita e poi si distribuisce. In Inghilterra negli stadi si viveva in un clima pazzesco 40 anni fa, non era possibile andarci. Oggi non succede più niente del genere. Si va in prigione quando si commette un reato negli stadi.
Di recente alcuni pseudo tifosi hanno fatto di un lutto nazionale, che per lei è un dolore privato, un bersaglio da colpire e sbeffeggiare: gli striscioni contro il Grande Torino. Siamo il Paese del tifo “contro”, che soluzione propone per virare verso un tifo che sia invece a favore?
Si tratta di un caso in cui occorre una sanzione esemplare. Quegli stadi vanno chiusi. Queste cose continuano a succedere perché non si applicano pene severe. Lo stadio va chiuso, lasciato in piedi con una targa fuori che spieghi alle future generazioni il perché. Non va abbattuto e costruito qualcosa di nuovo al suo posto, o convertire quella struttura in qualcos’altro. Anche se gli stadi costano, quello va lasciato e ne deve essere costruito un altro, ma, ripeto, soprattutto va spiegato il perché. Costa molto più alla società e non solo al calcio, avere generazioni future prive di rispetto e valori. Il calcio fa emergere il problema.