L’occasione era legata a un corso di aggiornamento per giornalisti lombardi, ma l’argomento era di quelli in grado di coinvolgere un po’ tutto il mondo sportivo contemporaneo: il rapporto tra un bambino praticante sportivo e i suoi genitori che quasi sempre seguono o assecondano la sua pratica agonistica. Non è sempre una passeggiata di salute, nel senso che a volte la troppa passione di un papà o una mamma, o una sua cultura sportiva sbagliata – figlia del risultato a tutti i costi -, rischiano di rovinare tutto. Ecco perché, da un po’ di tempo atleti, ex atleti, arbitri, dirigenti sportivi, ma anche psicologi ed educatori si ritrovano davanti a una platea di operatori dell’informazione e di genitori per cercare di correggere le eventuali storture di un rapporto, quello di un bambino e del suo sport preferito, che dovrebbe in teoria essere solo gioia e divertimento.
Ecco quindi i recenti appuntamenti di Milano e Bergamo – che hanno avuto tra i loro ospiti giornalisti come David Messina, Giorgio Gandola e Filippo Grassia, un ex arbitro internazionale come Paolo Casarin e un campionissimo del ciclismo come Felice Gimondi, oltre a uno staff di psicologi e pedagoghi impegnati a seguire le giovanili del Milan – come occasioni rivelatrici per misurare il termometro di un fenomeno che per certi aspetti si è rivelato il peggior nemico dello sport.
Una delle massime è stata sintetizzata così da Antonello Bolis, pedagogo del Milan giovani: «I genitori devono accompagnare e consigliare i figli, mai sostituirsi a loro. I nostri figli devono abituarsi da soli a districarsi tra le regole del gioco imparando soprattutto a gestire vittorie e sconfitte». Molto puntuali anche le parole di Casarin: «I genitori – ha spiegato l’ex arbitro – devono essere emotivamente vicini al proprio figlio, lasciandolo libero di fantasticare, senza costrizioni, correndo dietro un pallone o in bicicletta».
E a proposito di bici, molto toccanti sono state le parole di Felice Gimondi, secondo il quale bisogna recuperare il rispetto dei rapporti: «Mio papà non mi ha mai condizionato, mi guardava correre da lontano, sapevo che c’era, ma era come invisibile, non mi ha mai messo pressione». Tutto il contrario di certi genitori ultrà, che oggi vorrebbero proiettare magari le proprie frustrazioni sulle performances agonistiche dei figli, guardando solo alla cultura del risultato e risultando invadenti e a volte arroganti nei confronti degli altri bambini, genitori o allenatori. «E pensare che anche quando diventai famoso, mio padre restò sempre un passo indietro – ha continuato Gimondi -. Un giorno avevo compiuto una grande impresa al Giro d’Italia e dopo la tappa centinaia di persone invasero l’albergo dove soggiornava la mia squadra. Tra loro però mio padre non c’era: mi suonava strano, perché lo avevo visto al traguardo. Uscii dall’hotel e lo trovai là, su un muretto, che non osava neppure entrare. Eppure era il papà di un campione».