In Italia non si è mai proceduto a disciplinare una misura “universale” di tutela per quanti siano sprovvisti “dei mezzi necessari per vivere” (secondo l’impegnativa previsione dell’articolo 38/I della Costituzione), ma si è preferito concentrare i pochi interventi attuati in questa direzione solo a beneficio di specifiche categorie, come in primis gli invalidi cosiddetti civili, i non vedenti e i sordomuti. Per quanti fossero affetti da queste disabilità sono state approntate così misure di carattere economico (come la pensione di inabilità cosiddetta “civile”) o promozionale, al fine di facilitarne il collocamento sul mercato del lavoro (come il cosiddetto collocamento “mirato”). A parte stavano poi l’indennità di disoccupazione (di importo storicamente assai modesto) e i trattamenti di “cassa integrazione” (riconosciuti sempre in maniera molto selettiva).
Mancava, quindi, una modalità di intervento generale indirizzata ad assicurare misure di sostegno a soggetti che, pur dotati di una piena capacità lavorativa, si trovassero in situazioni di bisogno momentaneo.
Spingeva in direzione opposta alla creazione di un sistema di tutela di tale tipo, sia una generale diffidenza verso sistemi improntati alla mera assistenza, in presenza di disposizioni costituzionali dirette ad incoraggiare la collocazione lavorativa di «tutti i cittadini» (vedi articolo 4 della Costituzione), sia, più in generale, il timore che attraverso interventi di sostegno economico si finisse per alimentare il mercato del lavoro “nero”, consentendo alle persone assistite, a fronte della integrazione del reddito proveniente dai sussidi pubblici, di poter accettare anche lavori remunerati con una retribuzione di importo minore rispetto a quello dovuto a fronte della contrattazione collettiva.
Lo stato di povertà non è mai stato, insomma, in quanto tale, destinatario di uno specifico intervento assistenziale, se non grazie alle iniziative caritatevoli o filantropiche dei singoli o della Chiesa o alla tradizionale assistenza comunale, un tempo assicurata attraverso le cosiddette istituzioni di pubblica assistenza e beneficienza (Ipab), sviluppatesi per lo più in seguito a donazioni o a lasciti ereditari.
Peraltro, si deve rilevare come un indiretto contributo ad alleviare le situazioni di povertà era derivato, nei decenni trascorsi, dalla presenza di una legislazione vincolistica in materia di abitazione, che, attraverso l’imposizione ai singoli proprietari di beni immobili di un canone di locazione “equo” (legge numero 392/1978, ora sostanzialmente abrogata), finiva per incidere fortemente su una delle principali voci che concorrono alla consumazione del reddito proveniente da attività di lavoro. Nello stesso senso, ma con alterne vicende (e senza gravare sui patrimoni privati), un ruolo centrale è stato svolto da specifici enti pubblici che, in attuazione di programmi urbanistici di edilizia popolare (e grazie ad una speciale contribuzione), provvedevano alla costruzione di abitazioni, poi assegnate a canoni di favore ai richiedenti, secondo graduatorie che tenevano conto dei carichi di famiglia e, talora, delle situazioni di disagio.
Una nuova spinta allo sviluppo delle misure universali di “coesione sociale” è peraltro giunta dalle istituzioni europee, al fine di assicurare a tutti i lavoratori un minimo vitale, a fronte della liberalizzazione dei mercati, così da costituire, unitamente al potenziamento dei servizi di collocamento, un buon sistema di contrasto alla disoccupazione e alla povertà.
In questa direzione, l’ordinamento italiano ha conosciuto in tempi recenti uno sviluppo dei trattamenti “universali”, talora su base solo sperimentale, con limitazione cioè a solo alcune porzioni del territorio nazionale: un tipico esempio di siffatte misure è costituito dal “Reddito minimo di inserimento”, istituito in via sperimentale da una legge del 1997 e successivamente prorogato fino alla legge numero 43/2005, che ne ha decretato l’estinzione. Si trattava di una prestazione economica corrisposta dai Comuni ai soggetti, che vantassero la residenza da almeno un anno, i cui redditi si collocavano al di sotto di una certa soglia. Più di recente nel novembre del 2017 è stato varato il Reddito “di inserimento” (Rei), destinato inizialmente alle sole famiglie con figli minori e poi esteso ad una platea più ampia.
In questa tendenza viene ora a collocarsi, forte di una dotazione finanziaria almeno cinque volte superiore a quella prevista nelle leggi di bilancio degli ultimissimi anni, il cosiddetto “Reddito di cittadinanza”, introdotto con un decreto legge del gennaio 2019 e destinato a breve ad essere erogato a centinaia di migliaia (e forse a milioni) di beneficiari, ampliando così notevolmente la platea dei soggetti che già potevano beneficiare lo scorso anno dell’intervento dei Rei.
Molti sono però gli aspetti di incertezza: vediamone almeno due.
Un primo aspetto riguarda la platea dei possibili beneficiari, perché le stime generalmente si incentrano solo sulla condizione di chi è inoccupato, dimenticando così i tanti (e non sono pochi!) che hanno certamente un lavoro, ma che guadagnano un reddito inferiore (o di poco superiore) all’importo del Reddito di cittadinanza. È chiaro come per costoro l’alternativa fra lavoro e disoccupazione verrà a conoscere una terza soluzione dall’aprile 2019, poiché potrebbe per essi aprirsi la possibilità di abbandonare il lavoro (o anche: di non riprendere a svolgere attività “stagionali”, nel turismo, nei servizi o nell’industria alimentare), senza perciò vedere ridotte le proprie entrate, grazie al riconoscimento del Reddito di cittadinanza (che in molti casi potrebbe essere financo superiore alla retribuzione).
Il rischio quindi che il “Reddito di cittadinanza” ingrossi le file della disoccupazione (o del lavoro nero, così da poter beneficiare di una doppia entrata) è dunque elevatissimo e si potrà da subito verificare quale sarà stato in concreto l’effetto sul numero complessivo dei disoccupati, guardando alle rilevazioni trimestrali dell’Inps e dell’Istat.
Un secondo rischio, invece, è più occulto, perché insuscettibile di una immediata misurazione.
Partendo per così dire dalla “coda”, si deve comprendere quali misure siano state messe in campo per evitare che i soldi destinati, con sforzo di tutti, a contrastare la povertà non finiscano poi per ingrossare le tasche di chi non ne avrebbe diritto (ed anzi può dirsi senz’altro un evasore del fisco e degli oneri contributivi).
E dunque, per accennare al sistema sanzionatorio, bisognerà dire che, se è pur vero che il decreto del gennaio 2019 prevede la reclusione da due a sei anni per chi “rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere”, non si deve dimenticare che la revoca del beneficio con efficacia retroattiva consegue solo alla condanna in via definitiva, rendendo a tutt’evidenza puramente teorica la prospettiva di una restituzione di ciò che è stato pagato anni prima senza che ve ne fosse titolo.
Né miglior fortuna sembra poter avere la revoca disposta “in via amministrativa”, poiché in questo caso, il decreto non va al di là della semplice enunciazione del principio di massima, mentre non è per niente chiaro in che modo l’Inps potrà avere accesso alle informazioni che dimostrino che le dichiarazioni rese sono incomplete o false (essendo evidente come una eventuale segnalazione che provenga da un terzo o anche da un ufficio pubblico non vale a costituire prova dell’insussistenza delle condizioni di bisogno, almeno fin tanto che non vi sia l’intervento della polizia giudiziaria o dell’Ispettorato del lavoro).
A riguardo basti dire che il decreto si dilunga nel prevedere varie ipotesi, anche attraverso il controllo sul tipo di spese effettuate (che non a caso ha spinto il Garante della privacy a farsi avanti con un proprio memorandum), senza però mai cogliere nel segno, senza cioè prevedere in maniera espressa e chiara la possibilità di attivare una forma di sorveglianza ispettiva a richiesta degli uffici dell’Inps. Si tratta peraltro di una attività che, in quanto mirata alla sospensione del beneficio più che al recupero di quanto indebitamente pagato (e oramai speso da chi, per definizione, non ha nulla), verrebbe a gravare i pochissimi funzionari dell’Ispettorato di un compito ingrato (ed anche controproducente, posto che così facendo verrebbero distolti dal controllo sulle imprese, ben più necessario, perché capace di far luogo ad accertamenti di grande consistenza economica).
Si tratta, in verità di un aspetto delicato, ben noto a chiunque abbia esperienza dei sistemi di assistenza sociale, ma che in Italia mostra profili di maggiore debolezza sia per le dimensioni (poco meno di 4 milioni di lavoratori!) che occupa nel nostro Paese l’area dell’economia “in nero”, sia per l’enormità della platea dei soggetti che dovrebbero essere assoggettati a controllo.
Malgrado si sia intervenuti sulla funzione ispettiva, prima nel 2004 con un provvedimento di razionalizzazione collegato alla “legge Biagi” e poi con uno dei decreti del “Jobs Act”, diffusa è la paura che le strutture dello Stato non riescano alla fine a controllare che l’erogazione vada sempre a buon fine.
Meglio, forse, oltre che assumere cinquemila “navigator”, sarebbe allora irrobustire i ruoli dell’Ispettorato del lavoro, con l’immissione in ruolo di qualche migliaio di nuovi funzionari prevedendo, in ogni caso, misure di graduale conservazione del reddito anche per quanti trovino (ho abbiano già) un’occupazione precaria, così da evitare l’avvio di un meccanismo perverso, che, in questo modo, rischia di incrementare la disoccupazione (invece che di combattere la povertà).