L’omelia pronunciata dal nuovo Pontefice Francesco nella Messa d’inizio del suo ministero petrino in occasione della solennità di San Giuseppe, traccia il programma del nuovo pontificato. Un programma all’apparenza semplice, espresso efficacemente dalla reiterazione del verbo “custodire”, “prendersi cura” nonché del corrispondente sostantivo “custodia” ed aggettivo “custode”.
Un altro aspetto credo vada menzionato: il richiamo al “custodire” come principio universale, come vocazione dell’essere umano in quanto tale prima ancora che del cristiano. Espresso in altri termini ciò significa che il “custodire” non riguarda solo la prospettiva di fede, ma anche e prima ancora la prospettiva di ragione che accomuna tutti, credenti e non credenti; in virtù di questo il “custodire” è proposto dal Sommo Pontefice come via al bene dell’uomo e quindi anche al bene comune della società; è proposto quindi come orizzonte di riferimento non solo dell’agire privato, ma anche dell’agire pubblico; non solo come orizzonte dei singoli e della famiglia (la sede naturale dell’esperienza del prendersi cura), ma anche delle più diverse realtà associative e delle stesse istituzioni. Si tratta quindi di una prospettiva che inevitabilmente coinvolge anche il diritto.
Vorrei focalizzare su questo per quanto possibile in poche righe.
L’azione del “custodire” si declina come apertura e dedizione all’altro, rispetto e accoglienza dell’altro (non semplice tolleranza alla maniera dell’imperatore romano Costantino); se questo “essere per l’altro” realizza ciascuno in quanto essere umano, l’aver cura di se stessi (anche a questo invita l’omelia del Santo Padre) non può che esprimersi attraverso la cura dell’altro. “Avere cura” è un “essere per l’altro” senza misura, è amare l’altro; proprio l’assenza di misura nell’accoglienza è infatti il distintivo della carità.
Il diritto però non ha e non può avere come fine diretto, immediato la carità; la carità è slancio spontaneo e non può certo essere imposta dalle leggi dello stato; anzi, quando due parti ricorrono al diritto mettendo di mezzo un giudice significa che non c’è accoglienza vicendevole ma piuttosto conflittualità. Si pensi al caso emblematico della famiglia ove, quando regna l’accoglienza reciproca regna anche la concordia, ma quando si avverte l’esigenza di ricorrere al diritto di famiglia significa che nell’armonia familiare qualcosa si è infranto.
Il diritto ha a che fare con la misura e la reciprocità; il suo orizzonte è quindi propriamente quello della giustizia e non quello dell’amore; nella famiglia in cui regna l’accoglienza reciproca quello che ciascuno fa per gli altri non è certo parametrato sulla stretta misura del contraccambio ossia su ciò che gli altri fanno per lui.
Il diritto allora costituisce un ostacolo alla gratuità della cura dell’altro, dell’amore, della carità? Direi proprio di no; è vero infatti che il diritto, come strumento di giustizia, regola le relazioni affinché ciascuno abbia ciò che gli spetta nella logica del contraccambio, ma solo se ciascuno ha ciò che gli spetta secondo giustizia è possibile quella gratuità nel dare, nell’accogliere, nell’aver cura dell’altro in cui consiste propriamente l’amore, la carità. Fin tanto che non mi si dà il dovuto, non posso fare esperienza del dono. Se ad esempio in una famiglia il genitore si limita a mantenere il figlio per la responsabilità giuridicamente rilevante di averlo messo al mondo, magari anche su disposizione del giudice, non sta facendo nulla di più che dare al figlio ciò che gli spetta secondo giustizia. L’amore verso il figlio impone certo di andare oltre il mero mantenimento senza limite né misura, ma questo non sarebbe possibile senza soddisfare la sua esigenza di mantenimento.
Il diritto non realizza direttamente (né lo potrebbe) l’accoglienza gratuita del prendersi cura, ma rimanda oltre la giustizia che persegue a quell’orizzonte di gratuità che della giustizia è compimento.