È di questi giorni il clamore dei “finalmente!” alla notizia dell’approvazione alla Camera della proposta di legge che riduce i tempi di separazione legale per poter richiedere (e ottenere) il divorzio: non più tre anni, ma uno solo, o addirittura sei mesi, a seconda che la separazione sia giudiziale piuttosto che consensuale. Non rileva se ci siano o non ci siano figli.
Per diventare legge, ovviamente, il breve testo licenziato dalla Camera a fine maggio, che prevede peraltro che con la domanda di separazione o di divorzio si possa chiedere contestualmente anche la divisione della comunione legale dei beni, dovrà passare al vaglio del Senato. Visto però il successo di voti a favore già ottenuti, è probabile che venga approvato anche dalla maggioranza dei senatori, magari con qualche modifica.
Ma perché tanta esultanza, da una parte, e così poco dibattito, dall’altra?
Solo perché, aboliti i cosiddetti tempi lunghi (3 anni) per accedere al divorzio, possiamo sentirci al passo con l’Europa? Non importa, poi, se il procedimento si incaglia nei tempi lunghi della giustizia civile italiana, per i quali il nostro Paese è plurisanzionato dall’Europa stessa! Forse perché la durata della separazione è ritenuta in ogni caso un’inutile attesa della chiusura definitiva di una storia matrimoniale divenuta difficoltosa? Forse perché, ormai, si dà per scontato che non valga più la pena di insistere sulla stabilità del patto matrimoniale, riducendolo a fatto privato, subordinato al perdurare del mero sentimento? Forse perché non si crede più che la famiglia sia “buona notizia” (Giovanni Paolo II), luogo privilegiato di dialogo e di risoluzione di conflitti, segno di speranza per il mondo intero?
Qualche riflessione è necessaria, se non vogliamo rischiare di parlare indifferentemente di separazione e di divorzio senza accorgerci che, in realtà, stiamo parlando di famiglia, quella che, con tutte le sue risorse e con tutte le sue problematiche sta alla base della società e che la Repubblica Italiana riconosce come “società naturale fondata sul matrimonio” (articolo 29 della Costituzione), facendola oggetto della sua tutela.
Il punto della questione, infatti, è proprio il matrimonio, la cui antitesi, invece, è il divorzio, previsto dalla legge come estrema ratio di una separazione che non è riuscita ad essere rimedio alle problematiche che avevano portato la coppia alla cessazione della convivenza.
Da un lato, quindi, un bene da proteggere (l’unità coniugale); dall’altro, un male che si vorrebbe evitare (la divisione coniugale) e che, se del caso, richiede di essere trattato con ogni attenzione per il bene delle persone coinvolte e nel rispetto della loro sofferenza e della loro dignità. Esattamente come farebbe un medico con il suo paziente: portarlo possibilmente alla guarigione, prodigandosi per curarlo, adottando le modalità terapeutiche più adeguate e, se possibile, meno invasive, ricorrendo all’estremo rimedio chirurgico solo in mancanza di valide alternative.
In linea con questa impostazione di favor familiae che troviamo nella nostra Costituzione, si pone e si dovrebbe porre la legislazione in materia, attesa la natura anche pedagogica della legge. Basti pensare, ad esempio, per stare sull’argomento che ci riguarda, quanto si sia rivelata utile alla famiglia la Legge 405/75 che istituì i consultori familiari, con il loro prezioso e paziente lavoro sul territorio a sostegno delle difficoltà di ogni tipo.
In tutt’altro senso, invece, sembra andare la citata proposta di legge che, se approvata anche dal Senato, modificando parte dell’articolo 3 dell’attuale legge sul divorzio, introdurrebbe in maniera generalizzata il cosiddetto “divorzio breve”, lasciando peraltro immutata la residua normazione processuale che ben potrebbe essere semplificata e, per certi versi, resa meno anacronistica.
Attualmente, il divorzio (più esattamente, in termini legali: lo scioglimento del matrimonio per quanto riguarda quello civile e la cessazione dei suoi effetti civili per quanto riguarda quello concordatario, quello cioè celebrato in chiesa) può essere richiesto, tra l’altro, quando sia venuta meno e non si sia più ricostituita la comunione spirituale e materiale dei coniugi nel periodo dei tre anni a decorrere dalla prima udienza di separazione. Se richiesto da entrambi i coniugi separati, sulla base di condizioni concordate, il divorzio viene dichiarato con sentenza (spesso non suscettibile di appello per espressa rinuncia delle parti) al termine di una procedura breve (minimo 5 – 6 mesi); se, invece, è richiesto da una sola delle parti, la procedura sarà più lunga, dovendo seguire il rito delle procedure contenziose, nel rispetto dei termini del contraddittorio e delle regole dell’istruttoria, concludendosi con una sentenza che non potrà essere subito definitiva, essendo suscettibile di appello. Dire che la durata di questa procedura non sarà meno di un anno e potrà anche superare i tre è comunque un azzardo, perché non potrà che dipendere da molteplici e incerti fattori. Se le cose, però, vanno per le lunghe sulle questioni accessorie, è possibile richiedere una sentenza parziale, limitata alla sola pronuncia di divorzio, demandando al seguito del processo le altre questioni.
Ebbene, se entrasse in vigore la preannunciata riforma, fermi gli altri presupposti e il duplice iter processuale appena citato, i tempi di separazione necessari si ridurrebbero a soli sei mesi, se la separazione è consensuale, e a un anno, se è giudiziale, anche se eventualmente ancora in corso, ma con decorrenza non più dalla prima udienza davanti al giudice, bensì dall’introduzione della domanda (deposito del ricorso di separazione consensuale o notifica di quello di separazione giudiziale).
Inevitabili, di questo passo, gli inconvenienti processuali (che comunque non intaccano la sostanza del nostro discorso). Facciamo un esempio, tanto per capire quali siano le vere priorità da affrontare per consentire ai cittadini (divorziandi o no) di accedere celermente alla Giustizia, ancorché il legislatore si faccia bello nell’abbreviare i tempi per ottenere il divorzio.
Se, come prevalentemente avviene ora, stante il carico di cause del tribunale, quest’ultimo fissasse l’udienza di comparizione dei coniugi dopo sei mesi dal deposito del ricorso di separazione consensuale, a quel punto, secondo le eventuali nuove disposizioni, le parti, ma anche una sola, potrebbero già richiedere il divorzio! E non si potrebbe nemmeno escludere che l’eventuale unica parte richiedente, non più in accordo con l’altra, chieda condizioni diverse da quelle previste, ma non ancora sottoscritte in separazione consensuale. Quindi: procedura contenziosa di divorzio, aperta su quella pendente di separazione consensuale (ma potrebbe avvenire anche su una procedura di separazione giudiziale), con i tempi (lunghi) processuali attuali delle procedure contenziose.
Ma (ed è quel che ci preoccupa), dal punto di vista sostanziale, questa drastica riduzione di tempi (da tre anni a uno o anche a sei mesi) che dovrebbe intercorrere tra la separazione e la domanda di divorzio finirebbe col sottrarre ai coniugi separati (specie se genitori) uno spazio utile per una verifica delle ragioni della loro separazione, quel tempo minimo necessario a ridurre l’acredine della relazione interrotta, a sedimentare il conflitto, a elaborare nel concreto della vita di tutti i giorni il trauma della rottura della relazione coniugale, quel tempo a misura d’uomo per recuperare la coscienza di sé, una nuova dimensione di sé, quella serenità che aiuta la libertà di ciascuno a prendere decisioni in una nuova prospettiva di vita, spesso di solitudine.
Certo, non tutti i casi di separazione sono uguali, non foss’altro che per la presenza o meno dei figli, fattispecie purtroppo non contemplata in questa modifica di legge, ma è anche fuori di dubbio che l’abbreviazione di tempo, che potrebbe andar bene per qualche specifico caso, consentirebbe invece al coniuge meno sensibile e più determinato allo “strappo”, nell’affermazione di un malinteso concetto di libertà, di avere in mano il pungolo legale della fretta, per emarginare ogni problema, anziché affrontarlo per risolverlo, e impedire di fatto un eventuale ravvedimento, che tenga meglio conto degli interessi dalla famiglia.
Si potrebbe dunque concludere che la proposta normativa che andrà al Senato non tratta, in realtà, del “divorzio breve”, ma della “separazione breve”. E breve a tal punto che la separazione, in molti casi, si rivelerebbe del tutto inutile (a quel punto, anche un inutile dispendio).
Parlare di divorzio breve, dunque, è un inganno. È il risultato della confusione-equiparazione (purtroppo molto diffusa e che verrebbe ulteriormente alimentata a livello culturale da questa riforma) tra separazione e divorzio. A differenza della separazione, infatti, il divorzio, che comunque non toglierà mai la validità del matrimonio cattolico, pur privandolo degli effetti civili, fa cessare la qualità di coniuge e, di conseguenza, i reciproci diritti successori.
Il divorzio, allora, non diventa breve se si riduce il tempo della separazione, bensì se si riduce il tempo della procedura!
Diversamente, si vanifica la ragione della separazione legale, fino ai suoi aspetti pratici, deprimendo ogni buon intendimento di quel coniuge che accetta di rimettersi in discussione per un bene superiore, così come si svilisce il lavoro di consulenti e di terapeuti familiari. Perché far fatica se, quando si sbaglia o quando le cose non vanno, non viene lasciato il tempo per tentare di rimetterle a posto? Forse non è più considerato un bene dallo Stato tutto ciò che contribuisce all’unità e alla stabilità familiare?
La sicura conseguenza è che, così considerata, la separazione legale verrebbe a tal punto snaturata da diventare unicamente prodromica al divorzio, con inesorabile indebolimento dell’istituto matrimoniale.