Non molto tempo fa gli avversari politici si mandavano sul patibolo, o si facevano ammazzare (si pensi a Trotsky, o ai Kennedy). Oggi ancora in non poche parti del mondo si ammazzano e si fanno a pezzi (si pensi a Kashoggi), si avvelenano o – se va bene – si incarcerano sine die.
Da noi, in Italia, di questi tempi se li si vuole eliminare gli si costruisce addosso una crisi di governo. La più inutile e grottesca possibile, alzando ogni giorno la posta o cambiando ogni giorno le richieste e le pretese, cosicché la ferita resti sempre aperte e la soluzione non si possa intravvedere mai.
La salute, il lavoro, i risparmi, le imprese, i beni, la cultura dei cittadini restano sullo sfondo, anzi non interessano proprio, benché se ne abbia la bocca sempre piena. Gli uomini e le donne migliori sono rottamati come giocattoli inutili, e i peggiori branditi come armi provvidenziali.
I giuristi – tranne quelli “di palazzo” o “di scuderia”, naturalmente – esprimono (ormai stancamente, però) il loro stupore, il loro dissenso, forse arrivano ad esprimere la loro contrarietà. Ma, ormai, quasi niente di più. Sanno che tutto questo non si calmerà – e allora si calmerà all’improvviso, tutte le palle entreranno come per incanto nella loro buca, tutti i conflitti “politici” troveranno la loro pace – fin tanto che Giuseppe Conte non sarà disarcionato e Matteo Renzi penserà che così la sua via al successo e alle luci della ribalta sarà aperta di nuovo, e riuscirà ad uscire da quel 2/3% cui lo condannerebbero le elezioni – in qualsiasi tempo venissero celebrate.
Come una piccola barca in una burrasca, anche la Costituzione viene sballottata di qua e di là: il presidente della Repubblica viene sempre più relegato al ruolo di notaio necessariamente neutrale, mentre la Costituzione dice che è lui che nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questi, i ministri (art. 92). Il presidente del Consiglio per arrivare a Palazzo Chigi (e per restarci) deve sottostare, a pena di totale immobilismo, alle pretese – e spesso ai capricci – delle forze politiche, e chi è più piccolo più punta i piedi e alza la voce, specie se è (come nel nostro caso attuale) l’ago della bilancia, magari con parlamentari a suo tempo eletti con i voti di un altro partito, ma conta poco: mentre la Costituzione dice che il presidente del Consiglio è lui che dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile e ne mantiene – lui – l’unità dell’indirizzo politico-amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri (art. 95) – che non sono carte da gioco che si “calano” sul tavolo o si ritirano a piacere del briscolante di turno. I rappresentanti dei partiti politici si stanno affannando per stendere in questi giorni nientepopodimenoche un “contratto di legislatura” cui il futuro premier dovrà (dovrebbe) attenersi, a pena di perdere questo o quell’altro pezzo, o di subire imboscate parlamentari o extra-parlamentari o – ben che vada – di vivacchiare in un precario stallo continuo: eppure la Costituzione dice che il presidente del Consiglio ed i ministri (art. 93), prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del presidente della Repubblica secondo un testo (legge n. 400/1988, art. 1, terzo comma) che vale la pena riportare: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione” . Chi se lo ricorda, tra quelli che – senza ancora sapere chi sarà nominato presidente del Consiglio – stanno discutendo, bellamente litigandosi, per stendere il “contratto” (un elenco di pretese reciproche) cui il Governo che verrà dovrà (dovrebbe) essere “fedele” e “leale”?
Per altro, questa questione del “contratto” (che riaffiora: chi non ricorda quello tra Lega e M5S prima di quel primo governo – allora giallo-verde – di Giuseppe Conte?) non è nuova: ma solo adesso viene posta con tanta enfasi e teatralità. Ebbene: l’idea stessa di “contratto” con quelle parti cozza frontalmente con la Costituzione.
“Contratto”, secondo il nostro ordinamento (art. 1321, cod. civ.) è “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. E’ evidente – anche se è la prima volta che si legge questo testo – una duplice caratteristica: da un lato è un accordo tra parti (in questo caso quei partiti) mentre tutti gli altri stanno fuori; dall’altro lato è un accordo per regolare i rapporti (non arriverò a dire “patrimoniali”…) tra di loro, per quanto ci vogliano far credere che è nell’interesse del popolo, degli Italiani, etc. Cioè: il “contratto” è uno strumento privatistico che serve solo tra le parti, e non ha sbocchi né valore costituzionali, politici, pubblici. Con il contratto le parti mettono per iscritto le regole per il loro gioco, per le loro partite a scacchi (o a briscola), per evitare che l’una o l’altra parte, a turno o contemporaneamente, metta in atto trappole, imboscate, trucchi reciproci: ma è evidente che queste regole del gioco valgono e sono scritte solo per loro e tra loro, e non valgono certo per il Governo (che a quel tavolo non c’è) né per il popolo (che è addirittura fuori del palazzo) e che non ha la benché minima voce-in-capitolo, e può solo stare a guardare il recital, domandandosi (ma se lo domanda ancora?) come andrà a finire, pensando in cuor suo che forse è meglio lasciarli recitare – purché non facciano troppi danni.
E la Costituzione resta lì, in un canto. Insieme con i giuristi.