I tristi fatti verificatisi dieci giorni fa in via Bolla, nel quartiere Gallaratese di Milano, con la maxirissa sviluppatasi per alcune ore tra i palazzoni delle case popolari, non è una sorpresa per chi vi lavora da tempo. L’Area Rom di Caritas Ambrosiana conosce e segue diversi nuclei familiari insediatisi abusivamente in quegli edifici. E da tempo sostiene la necessità di ripristinare, in quello e in altri luoghi della città, condizioni di legalità e sicurezza per tutti.
Già in un documento del settembre 2020, l’Area Rom di Caritas spiegava che da almeno due anni si poteva osservare, soprattutto tra i Rom in arrivo dalla Romania, la tendenza a occupare appartamenti sfitti nelle case popolari, spesso in condomini degradati. Nel periodo del confinamento causa Covid, le occupazioni sono cresciute per motivi facilmente intuibili, legate alla ricerca di condizioni di igiene e protezione comunque maggiori rispetto a quelle che può assicurare un insediamento informale.
In generale, comunque, le famiglie Rom occupano per un motivo molto semplice: sono alla ricerca di un miglioramento della qualità della vita, rispetto alla faticosa condizione da accampati in baraccopoli. In un alloggio popolare sfitto spesso si dispone di acqua, luce e riscaldamento in maniera più stabile che nei campi; si è meno soggetti a intemperie e mutamenti del clima; si è meno esposti a quanto accade nelle strade e ai ripetuti sgomberi.
Viene dunque posta in essere una transizione abitativa da una situazione informale a un’altra, a costo contenuto, chiaro, una tantum. Si paga, infatti, solo per entrare, a intermediari prossimi pure Rom – mentre è più difficile capire chi sta in cima alla piramide delle occupazioni illegali -, una cifra che oscilla dai 500 ai 1.000 euro per tre tentativi di occupazione: se nel giro di una settimana si viene sgomberati da un alloggio, si hanno garantiti altri due tentativi.
Il progetto migratorio non muta
La decisione di abbandonare campi e baraccopoli, per occupare alloggi pubblici sfitti, non muta, solitamente, il progetto migratorio della famiglia Rom, che rimane un progetto di pendolarismo, per lo più con la Romania, luogo di “ancoraggio” privilegiato. Tale decisione è inoltre resa possibile dal consueto meccanismo da “catena migratoria”: un gruppo di parenti e paesani (già occupanti) funge da attraente catalizzatore per chi è rimasto in strada. Così si creano grossi “agglomerati” di occupazioni, se non monoetniche comunque a forte prevalenza Rom: oltre a via Bolla, ve ne sono nella zona di Corvetto, del Lorenteggio, di piazzale Selinunte. Luoghi in cui le numerose famiglie occupanti tendono nel tempo a riproporre lo schema comunitario conosciuto – quello della tsigania rumena -, invadendo i cortili, le strade e gli spazi comuni con tavoli, sedie, griglie, furgoni…
Nessun progresso nell’inclusione
Tutto ciò è ben evidente in via Bolla. Dove l’indubbio miglioramento della qualità della vita registrato dalle singole famiglie occupanti (anche per ciò che concerne la possibilità di lavorare e frequentare la scuola) non si traduce però in un generalizzato e positivo processo di inclusione sociale. La perdurante transitorietà dell’abitare impedisce infatti l’accomodamento che sarebbe necessario e opportuno tra le persone Rom e il contesto di quartiere: il livello di conflittualità sociale sovente si accresce (acuito dalle filiere criminali e comunque illegali che governano le occupazioni) e l’emersione dalla povertà non riesce a compiere passi decisivi.
In conclusione, il grande assente di questi intricati scenari urbani continua a essere la politica, che non riesce a fronteggiare un bisogno sempre più acuto e diffuso in tante categorie sociali fragili (tra cui i Rom). L’esclusione dall’accesso alla casa, causata da leggi sulla residenzialità inadeguate, procedure burocratiche scoraggianti, investimenti nell’edilizia pubblica del tutto insufficienti, non può essere risolta da un mercato privato che, nell’intera area metropolitana, è sempre più proibitivo. L’occupazione appare quindi come la conclusione inevitabile, ancorché oggettivamente illegale, di un percorso di “scarico” di responsabilità politiche, che condanna interi ceti sociali alla precarietà abitativa e dunque esistenziale, e la collettività a dover fare i conti con fenomeni criminali, di disagio sociale e di degrado urbano, che non si può pretendere di risolvere agendo solo sulla leva della repressione.
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