David Maria Turoldo – che ora si riaffaccia anche con un segno sulla pietra e un’intitolazione, nell’area di largo Corsia dei Servi, nel cuore della città – da Milano non era mancato mai davvero: non dopo la sua morte, nel febbraio del 1992; non nel tempo in cui aveva vissuto una condizione di esilio dalla città, forzato per obbedienza agli «anni con la valigia» (sua la dizione) «perché non coaguli» (dissero altri); né mancò alla città negli anni di Fontanella di Sotto il Monte, scelta per fedeltà a papa Roncalli, dal momento che quella stessa fedeltà lo vedeva ovunque propalatore del Vaticano II – «mai abbastanza ricordato e lodato», secondo il suo dire sull’onda radiofonica – anche in tempi di assopimento del soffio conciliare. Quell’ovunque aveva in Milano un suo luogo centrale.
Quando approda a Milano nella prima metà degli anni Quaranta, Davide (lasciate a chi scrive il vezzo amicale legato anche a questa forma del nome) vede, scopre e osserva «tutte le stelle già dell’altro polo», come accade all’Ulisse dantesco superate le Colonne d’Ercole della vita precedente. Il povero continua a essere al centro del suo sguardo e seguita a essere osservato in poesia nella figura di una mendicante che dorme «in una scatola di cartone»; ma da giovane frate, Davide a Milano scopre ben presto la povertà, per lui nuova, degli operai di fabbrica, che sono ancora «gli ultimi» come i contadini del Friuli, ma collocati nel tumulto impetuoso della storia.
E ancora scopre – Davide – una città che si avvia a essere metropoli, fatta di diversità accostate e disomogenea al suo interno: ma dentro questa sa individuare amicizie, vicinanze, possibilità di azione, dimensioni di spiritualità che – tutte presenti – sono diverse da frequentare rispetto allo spazio di relazione omogeneo delle sue origini. Milano e la radice friulana si costituiscono così come due polarità in tensione, che si legano in maniera inattesa e diventano indispensabili l’una per l’altra. David Maria Turoldo non sarebbe il Davide che abbiamo conosciuto senza quest’arco teso di esperienze e di dialogo vibrante.
Andando a interpellare le sue testimonianze rese davanti a cineprese e telecamere, è facile cogliere questa dimensione non solo nei contenuti ma nei modi di porgere, nei moti dell’animo che traspaiono per inflessioni, nelle sottolineature del tono, nell’atteggiarsi degli sguardi, nel porgersi verso l’obiettivo dell’inquadratura e verso l’interlocutore.
Un’intervista solo apparentemente descrittiva, del 1974, per I giorni della nostra storia, dà conto della consapevolezza di come Milano sia crinale della storia. Il silenzio che precede la notte dell’insurrezione nell’aprile 1945 non è quello delle zolle e dei campi: viene descritto a parole staccate, che ricreano l’attesa e l’atmosfera, con la mano che si leva a sottolineare le pause: «Qualcosa di indescrivibile. Milano ferma… Non c’era segno di vita. Sembrava a un certo momento che si fosse fermato il tempo. Veramente… Per me è stata la rivelazione di cos’è uno sciopero. E cosa la fine di un regime quando lo sciopero, veramente, è sciopero di una città…».
Più meditativa, non meno tesa, risulta la conversazione televisiva con Leonardo Valente, del 1980: A tema ancora la Resistenza; come asse sempre la spiritualità nella storia; la lezione, sempre da Milano che – nel programma – segue la descrizione delle radici friulane e familiari: «Sì, veramente… Allora, io ero appena ordinato sacerdote, ero giovanissimo; ero entrato a Milano… Durante la guerra ho cominciato la mia predicazione e già nel 1943 predicavo in Duomo… E nel 1943 tu sai quello che è avvenuto. È vero: immediatamente, ancora prima dell’8 settembre, abbiamo sentito la necessità di fare delle scelte. Ormai si imponevano inevitabilmente e per me la Resistenza è stata la scelta dell’umano contro il disumano. E la categoria spirituale della resistenza è una categoria essenzialmente cristiana. Difatti Cristo è il segno di contraddizione al sistema, cioè è quello che “dice contro” il sistema; anzi il Vangelo dice “segno di contraddizione e di rovina”, perché poi diventa anche scandalo».
Su Milano, infine, sui temi di un «resistere/resistere» diverso, ma non meno radicalmente necessario, Davide torna nell’ultima intervista, in diretta Rai, colpito, ma non piegato dal male che lo sottrarrà alla vita. Dal palco di Profondo Nord, il 3 dicembre 1991, quasi meditando nei suoi occhi chiari, annota: «Che immagine ho di Milano? Prima di tutto è un’immagine complessa, composita: è chiaro… Penso, prima di tutto, che Milano voglia ancora essere Milano: c’è una città che non darei per perduta. Mentre il resto del Paese lo do allo sbando, credo che Milano resista ancora e voglia “essere”. La milanesità di Milano, nonostante tutte le apparenze, credo esista ancora… Soprattutto la passione civica di Milano non la do per esaurita e scomparsa… Il senso del lavoro credo ancora esista: la creatività di Milano credo sia fuori di ogni dubbio. E anche il senso civile che magari in altre parti potrebbe mancare, a Milano mi sembra – mi sembra… – di riscontrarlo ancora».
Era il tempo di Tangentopoli e dei nuovi flussi politici dei populismi sorgenti. Quelle parole sceglievano di tornare a Milano: a tutte le dimensioni di un incontro e di una scoperta; alla tensione morale tra valori e comportamenti; non già ai tempi, ma alle logiche della speranza incarnata; al saper dire, in nome dell’umano, “contro” le disumanità che – allora, oggi – la storia non smette di riproporre.