Non ci sono parole per commentare il terribile episodio di violenza che ha visto come protagonista Kabobo, il giovane ghanese, 31 anni, che ha ucciso, agli albori di un giorno di maggio, tre persone del tutto innocenti, casualmente finite sotto il tiro del piccone trasformatosi, nelle mani omicide, in un terribile strumento di morte. È con questo spirito che ho accettato la richiesta di scrivere un pezzo su questo episodio. Che richiede, prima di tutto, il silenzio e la preghiera. Nella mia mente e nel mio cuore questa vicenda fa risuonare tre urli. Tre urli di dolore che chiedono perché.
Il primo urlo è quello delle tre vittime che, senza nemmeno avere il tempo di rendersene conto, hanno visto distrutte le loro vite. Ci siamo tutti immedesimati in questi tre uomini e nelle loro famiglie. Come non sentirsi vicini a chi, nella tranquillità di un gesto quotidiano – portare fuori il cane, scendere per prendere il caffè – si trova travolto da una violenza inaudita? Sentiamo forte l’urlo di queste vite spezzate. Un urlo che provoca un brivido lungo la schiena dell’intera opinione pubblica: siamo dunque esposti a tutto? Possibile che la violenza riesca a penetrare anche nei meandri più intimi delle nostre giornate e dei nostri quartieri? A tale domanda si può rispondere chiedendo più sicurezza o individuando negli extracomunitari il capro espiatorio del nostro dolore. Ma a me pare che quanto è successo ci ricordi che nessuno è mai fino in fondo padrone della sua vita. Che siamo e rimaniamo fragili. Ed esposti all’altro. Una condizione che possiamo arrivare a maledire fino a spingerci a rinchiuderci in noi stessi o a cercare di stare alla larga da tutti. Ma sarebbe vita questa?
Il secondo urlo è quello del carnefice. Nessun dolore, nessuna sofferenza può, in nessun modo, giustificare il suo gesto. C’è una sproporzione incolmabile tra la sofferenza che pure affliggeva quest’uomo e il male che ha inflitto a coloro che ha colpito. Se accettassimo per buona l’idea che chi sta male è giustificato nel momento in cui scarica la sua rabbia contro altri, le nostre città diventerebbero una giungla. Ciò però non deve impedirci di vedere il tunnel nel quale la vita di Kabobo si è a poco a poco rinchiusa. Fino a non lasciar più vedere alcuna luce. Immigrato, senza lavoro, in attesa di una decisione sul suo futuro. Una vita sospesa tra un passato irrimediabile e un futuro ignoto. Senza un presente. Di fatto abbandonato a se stesso, privo di interlocutori umani e istituzionali. Pensando al ragazzo ghanese che si aggira di primo mattino per le periferie di Milano mi viene da pensare al disperato e assurdo tentativo di farsi ascoltare da qualcuno. E proprio perché il suo urlo di dolore non era stato raccolto da nessuno, ecco la decisione di trovare un modo, il più terribile, per farsi ascoltare. Da tutti. Come spesso succede nella società contemporanea, la follia, il dolore estremo trovano nell’atto violento massima visibilità. Tutti ci siamo accorti di Kabobo, dopo che nessuno sembrava accorgersi di lui. È inaccettabile che in un Paese civile – quale l’Italia pretende di essere – ci siano migliaia di persone come Kabobo che rimangono sospese sul nulla a causa di lungaggini burocratiche e dell’inefficienza del sistema giudiziario.
Il terzo urlo è di coloro che sono scampati alla violenza, ma non hanno avuto la prontezza per lanciare l’allarme. Avendo visto come è finita quella tragica mattina anche loro hanno urlato per essersi rinserrati nelle loro case, disinteressandosi di quello che avrebbe potuto accadere. È che invece è accaduto. L’abitudine a sentirci responsabili di quanto accade attorno a noi l’abbiamo dimenticata da un pezzo. Il bene comune è, così, quotidianamente negato. Come se a contare fosse solo il nostro tornaconto personale. Di scarso senso civico, dunque, si può e si deve parlare. Ma c’è forse anche dell’altro: prima ancora del senso civico, prima ancora del pericolo che non si è voluto vedere, colpisce che nessuno abbia visto stampato sul volto di Kabobo l’urgenza di un aiuto. La polizia andava chiamata non solo perché la situazione era pericolosa e poteva finire male. Non solo per senso civico. Ma prima di tutto e soprattutto perché Kabobo versava, in chiara evidenza, in uno stato di estrema necessità. Fermarlo era il primo modo di aiutarlo.
Ecco, oggi questi tre urli continuano a risuonarci dentro. Ci parlano della nostra comune condizione umana. Ci mettono faccia a faccia con il dolore, la violenza, l’assurdo. Facciamoli risuonare. Nel silenzio e nella preghiera.