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Sirio 01 - 10 novembre 2024
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Milano 2020

Tempi di grandi trasformazioni, occorre una rivoluzione culturale

Le considerazioni di Marco Garzonio, presidente dell’Ambrosianeum, nella presentazione della XXX edizione del Rapporto sulla Città

di Marco GARZONIO Presidente Ambrosianeum

19 Luglio 2020
Marco Garzonio

Di fronte a un grande trauma la reazione non può che essere ambigua: dall’ambivalenza accettata e vissuta può nascere la creatività, ovvero un poliedrico sistema di sorprendenti novità nel “far cultura”. Da una parte l’urto del trauma fa scattare l’istinto a stare in se stessi, rimanere soli davanti all’enormità di quanto succede. Raggiungi il vertice della solitudine e dell’impotenza, ti vien da chiuderti e blindarti: la pandemia si rende insopportabile, ti fa sentire d’essere un “sopravvissuto” di fronte all’immagine dei camion militari che portano in cortei notturni le bare in altre città e regioni perché nella Lombardia “delle eccellenze” non c’è più posto neanche per le cremazioni e le chiese, dove già non si possono celebrare nemmeno i funerali, devono essere usate come depositi di casse con salme su alcune delle quali non si riesce nemmeno a leggere bene il nome del defunto. Anche questa considerazione della morte, impensabile prima, è “far cultura”: è un’ombra della cultura, la “conversione” – un po’ forzata v’è da dire – di una cultura corrente che ormai non voleva più vedere la morte, l’aveva espulsa dai propri orizzonti e improvvisamente, in modo tragico e inaudito, s’è vista sbattere in faccia la questione dalla processione degli autocarri dell’esercito.

Dal profondo ti sale la domanda angosciosa: «A me quando tocca?». Per reazione al colpo dell’istinto legittimo a rifugiarti nell’intimità ti viene da dentro una spinta opposta. Avverti il bisogno di correre da altri spaventati come me, cerco di condividere con loro il mio terrore, conto che la messa in comune della disperazione rechi conforto. Lo dice anche il Papa, no?: «Non ci si salva da soli». Quando si stabiliscono contatti con chi come noi è nella tempesta si parla, si racconta, si cerca di dare parole alle emozioni. Già, ma le parole, sofferte quanto si vuole, ti accorgi presto che sono anche invadenti, intrusive, a volte o alla lunga banali (e come potrebbe non essere così, con la fame che abbiamo di placare le ansie?), quando non anche violente: perché le parole sono pietre. Ma sono anche suoni le parole, qualche volta ecolalie, disposti alle armonie eppure talvolta cacofonici e dissonanti. Sono pure appiccicose le parole: ci resti attaccato, come ti capita col miele; te le porti dietro, spesso enfatizzate e defraudate delle evocazioni simboliche dai media, dai talk show, dai tecnicismi degli esperti. A quel punto reagisci, fai dietrofront, ripieghi, hai bisogno di silenzio, torni ad avere una gran nostalgia di te stesso, ritieni indispensabile una sosta per pensare e rivedere tutto.

All’indomani dei grandi traumi collettivi chi è sopravvissuto ha una disposizione psicologica ad attaccarsi a “idee forti”, per le quali val proprio la pena stare al mondo, lottare insieme ad altri nel tentativo di cambiarlo, senza mai arrendersi. È un modo per restituire alla vita collettiva ciò che essa ci dà tutti i giorni e, se serve, nell’emergenza, per ritrovarci in quella che è davvero una rivoluzione culturale: trasformare il cuore. In questo, che è un muscolo per la biologia ma il centro del mondo per l’uomo e per la cultura che questi riesce a fare, risiede la morale di questo nostro tempo e di tutti i tempi delle grandi trasformazioni.

Da un cuore nuovo occorrerà ripartire. Ammoniva Giuseppe Lazzati: «Perché non avvenga di curare con applicazioni esterne ciò che solo una efficace terapia interna può sanare». Il fondamento di ogni ricostruzione, libro da cui ho tratto la citazione, è del 1947, anno in cui Lazzati, con Schuster ed Enrico Falck aveva appena fondato l’Ambrosianeum ed era stato eletto deputato all’Assemblea Costituente. Nella presentazione del volume Lazzati aveva annotato: «Ho scritto queste pagine nelle baracche fredde e scure dei campi di concentramento germanici». Ai compagni di prigionia l’allora capitano degli Alpini Giuseppe Lazzati teneva lezioni sul rispetto della persona umana e sull’esigenza di costruire una nuova società, animava gruppi sui vangeli, parlava di Gesù, della scandalosa morte di Croce e della Resurrezione: verità religiosa per il cattolico studioso di Letteratura cristiana antica, immagine simbolica della capacità dell’uomo di rialzarsi, rigenerato, dopo ogni caduta.

Oggi fa senz’altro meno freddo rispetto ad allora e sono passati più di 70 anni dalla Ricostruzione post-bellica, ma buio ce n’è ancora: e tanto. Ma credo ci sia anche altrettanta buona cultura per riedificare l’uomo, la socialità, la prossimità post-Codiv-19 e che tale istinto a rimediare al grande trauma resta fondamento di ogni ricostruzione. Ripartiamo di lì, per trasformare il servizio e il volontariato di coloro che animano un’impresa culturale in psicologia della riconoscenza, della restituzione verso chi ci ha preceduto, con particolare gratitudine per tutti coloro che sono caduti lungo il cammino, così da andare avanti con levità, gioia rinnovata, perseveranza: senza mai arrendersi. Il Rapporto sulla città di questo 2020 da ricordare ha al centro le donne: sono loro che portano vita, bellezza, amore, voglia di futuro. Se ne fanno carico anche per gli uomini, quando ce n’è bisogno. E lo fanno bene.

 

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